Il genere horror contemporaneo conserva ancora routine collaudate. Lo spettatore che ama vedere morire o vivere personaggi a cui vuole non vuole somigliare. La linearità del bene e del male incastrata in un plot narrativo più o meno scorrevole con colpi di scena ad intervalli regolari.
Jordan Peel, oscar come miglior sceneggiatura con il film Get Out, frantuma gli schemi del genere con la sua nuova creatura. “Noi”. US, se si vuole l’abbreviazione di United States. Noi non è solo un film ma è la scoperta di una spina dorsale per una nuova cifra espressiva che si muove nell’ambito dell’horror superandone limiti ed inciampi. La reazione dello spettatore non è più legata alla paura davanti alla morte della vittima innocente o al sadismo del mostro. La percezione dell’orrore passa attraverso una consapevolezza esistenziale. La citazione biblica presente nelle scene iniziali ci svela parte del destino del film. Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò” (Geremia 11:11).
Peele ci fa empatizzare con una famiglia che trova nei propri doppelganger un temibile nemico simile ad un incubo dalla durata indefinita. Lupita Nyong’o e Wiston Duke, due attori afroamericani dotati di sconfinato talento, non palesano gli stereotipi di razza in maniera esplicita. Si adoperano per essere tragici, assurdi, dissociati dalla realtà. Surreali e spaventosi. La razza non è una scelta ma è parte della performance attoriale.
Siamo nella costa della California del Nord. Lupita Nyong’o nei panni di Adelaide Wilson, fa visita al suo passato tornando nella sua casa d’infanzia sul mare con il marito e i due figli. Il punto sul passato arriva avvolto in una nuvola di flashbacks. 1986, Santa Cruz, persino gli americani si danno da fare per combattere fame e miseria e diseguaglianze sociali. Una bambina si dimena per allontanarsi dai suoi genitori. Adelaide si avvicina ad una casa degli specchi in un Luna Park chiamata da una bambina identica a lei. Circa trent’anni dopo, un insieme di fatali coincidenze fanno crescere la sensazione di Adelaide che i traumi dell’infanzia stanno per entrare con la forza nella sua vita. Ora ha una sua famiglia e non deve solo proteggere se stessa.
Dopo la luce di una giornata in spiaggia calano le tenebre. Quattro ombre si tengono per mano, i membri di questa famiglia sono fisicamente identici a loro. Il nostro doppio è sempre stato lontano nel nostro incedere quotidiano ma nella stessa misura spaventosamente poteva sempre riavvicinarci. Ogni attore porta in scena un doppio registro interpretativo. Il proprio io integrato nella società e la sua ombra disagiata e vendicativa. Questa lotta diventa un gioco macabro in cui l’io normalizzato cerca la fuga dalla ribellione del nostro io emarginato. Non possiamo fuggire da noi stessi. Solo la morte di una delle parti in gioco può rendere efficace la fuga.
Per Adelaide sarà un lunga notte dove tutte le sue preoccupazioni, nate e cresciute sotto l’ombra di quel trauma infantile sempre in agguato, diventeranno terrificanti conferme. Adelaide vive la maternità con dolcezza, si muove nello schermo con grazia ed attenzione. Il suo doppio, Red, giganteggia per tutto il film con una forza espressiva soprannaturale, ipnotica. Red ha uno scopo, la vendetta per l’affermazione della propria esistenza. Adelaide domanda impaurita: “Chi siete?” Red risponde robotizzata: “Siamo americani”. Da quel momento Red è un karma stralunato con le forbici.
La struttura musicale esalta la presenza di un’ironia latente ed amara. Non si sorride perché l’intuizione sul declino del paese appare reale. Noi siamo il paese, noi siamo il nostro nemico, i cattivi. Lo spettatore rimane incredulo ma vede la dimensione parallela del film nello stesso modo con cui Adelaide vede Red. Una minaccia che viene dal profondo e che ci troverà.
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