Se è vero che non si può pensare alla poesia italiana, a tutta la sua multisecolare storia, senza Petrarca, è pur vero che Dante resta un esempio di coerenza e adesione al proprio essere poeta, forte e motivato a non tacere, notato persino da Leopardi. Mi spiego: la sua figura, eretta e resistente contro le avversità della vita, funge da modello per le spalle spesso troppo fragili di poeti e artisti, ricordandoci che nella maggior parte della sua vita, il Sommo ha dovuto fare i conti con la sua condizione di esule, di persona forzatamente indotta a viaggiare, di uomo politico ambizioso cui viene tolta la patria che avrebbe voluto amministrare e guidare verso migliori destini, nel suo sogno imperiale. Dante è Dante anche in forza del suo esilio. E molte menti tra le migliori fra quelle letterarie del Novecento (da Eliot a Montale, da Pound a Beckett), hanno potuto rispecchiare il proprio sentirsi esiliati dalla assurdità della realtà, non diversamente da come Dante si sentiva esule da Firenze. Esule sì, con le mani legate sul piano dell’azione politica, ma senza nostalgie: il tradimento e la svolta del suo destino sono troppo imparentate con la sua città per non provocare, in una natura rovente come la sua, il risentimento più assoluto. Risentimento di cui è testimone la Commedia, nella quale si stempera in pura poesia senza consegnare il “poema sacro” della nostra letteratura alla biliosità del momento presente. E Nicola Bultrini, autore di questo libro sulla compenetrazione dei versi danteschi negli inferni dei campi di concentramento e più in generale nelle condizioni più estreme della prigionia, sembra portare al massimo frutto questo assunto.
I versi di Dante hanno un potere di immedesimazione e consolazione davvero formidabili. Proprio lì dove la lingua poetica avrebbe dovuto fermarsi (secondo Adorno dopo l’Olocausto ogni tentativo di poesia sarebbe stato un abuso e una falsità), i versi di Dante, citati a mente, in volumi minuscoli nascosti, scritti su superfici di fortuna, hanno portato ristoro, coraggio e forse persino salvezza a tanti internati, carcerati, confinati, come una seconda voce rispetto a quella propria. Nel senso che se uno dei tanti prigionieri del secolo scorso possedeva una sola voce per urlare il proprio dolore, una seconda voce, interiore, è diventata quella di Dante quando in quegli asettici campi di azzeramento della dignità umana, qualche malcapitato è riuscito a leggere, per vie misteriose e assolutamente fortuite, i versi di Dante, venendo così, fosse anche per un minuto, restituito alla propria creaturalità. Prima per compagnia, poi con identificazione, infine come prodromo a quella comunicazione più alta, persino dei versi di Dante, che è la preghiera.
Se per Bloom la poesia è rovinare le sacre verità, dagli esempi citati in questo libro, e per la peculiarità del viaggio dantesco (che si svolge nell’oltretomba), i due termini (preghiera e poesia) diventano come interscambiabili per questi esseri umani condannati alla non-umanità di una prigionia che va contro ogni scampolo di ragione. È ciò che emerge da questo volume denso e sempre pregnante, eppure pietoso e rispettoso della materia incandescente che tratta, della quale dobbiamo ringraziare l’autore al quadrato che è Dante, ma soprattutto l’autore a venire che ha raccolto testimonianze e documenti per completare un lavoro di ricostruzione degli avvenimenti quale forse è difficile trovare oggi nel panorama della prosa italiana, sia scientifica che narrativa.
Dello stesso Nicola Bultrini ci sia consentito segnalare il suo ultimo libro di poesia, La forma di tutti. Un volume che raccoglie l’intero della produzione del Bultrini poeta (che proprio della densità e della parsimonia necessitata ha fatto un tratto distintivo del suo stile), e che sin da titolo mette in evidenza le due polarità attorno alla quale ruotano i suoi versi. La forma e l’uomo vivente. Nel senso che per il poeta la vita propria e dei propri affetti si rispecchia in quella misteriosa e persino ancestrale del mondo, in un rimando continuo, al cardiopalmo, tra la protezione sentita nella propria casa genetica e la consapevolezza, figlia della conoscenza, di un fuori, e di un altrove, con il quale bisogna misurarsi pur sapendo che non sempre il bilancio delineerà una vittoria.
La voce di Bultrini si ritira in un angolo dello spazio eterno per lasciare posto a visioni in terza persona della nostra allucinata realtà, alla quale fa da controcanto una fede vera, matura, agonistica, mai data per scontata. Questo forse è il lascito maggiore de La forma di tutti. Dietro ogni lacrima c’è una spiegazione, un volersi concentrare su quel processo che dalla mera conoscenza delle cose si spinge al tribunale della propria coscienza, il solo e vero tribunale presente in questo libro, sapendo che non è l’ultimo, e che la parola fine non sarà pronunciata da tribunali umani.
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