Il mio primo omaggio va a Livorno, città da me amatissima per la sua autenticità e per il suo carattere antichissimo e coraggioso; fiero, che ospita la mostra di Modigliani al Museo della Città. Qualcosa che ha a che fare con lo “sviluppo”, nell’accezione più estesa del termine, nel senso di una fiorente civiltà, di un’emancipazione e di un buonissimo intento, si percepisce appena si ha il primo contatto fisico con le opere che la mostra ospita. Dai primi dipinti di Suzanne Valadon si arriva, strada facendo, a Utrillo, un artista all’interno di un panorama vastissimo e, che ha una matrice comune nella ricerca di un “espressionismo” che porta dentro una fertilità visiva ed eccessiva, una necessità nuova non solo di pensare la realtà come una contingenza ma anche di raccontarla con degli strumenti e delle “proporzioni” non accessibili direttamente ad un primo impatto logico o psicologico consueto, e che dunque si affrancano dalla pigrizia e dalla tradizione. Utrillo parla di un “Espressionismo” suo, che gravita intorno ai discorsi già aperti da altri pittori a lui contemporanei e che nello stesso momento vengono superati. C’è una sollecitazione materica simile a un decorativismo, a un lavorio minuzioso di uncinetto, a un bassorilievo di elementi floreali nettissimi, simili a delle armature in bronzo, in alcuni casi, o a sedimenti preziosissimi di colori in altri casi, sopra a una stesura di colore che genera una rarefazione o un’afa solida di colori acidi e spremuti, a creare un torpore. Nel lavoro di Utrillo emerge aggressivamente un “riconoscimento”: riconoscimento di se stesso con se stesso, dunque una probità intellettuale, una lealtà interiore riconoscibile nei suoi lavori, ricchi appunto del suo intento originario. Nel mio cammino ho posto gli occhi anche su Kisling; la linea diventa un involucro“interiore” e gentile, che rapisce un chiarore netto e torrido; sfornato. All’interno dell’organismo è evidente una calamita attirante luce, a dare vita a onestissime pozze di sole; quasi timorate. Mi sono soffermata anche su Aron Dejer, dove suggestioni oniriche ed elegantemente surreali ornano le rappresentazioni quotidiane e contadine, ingenue e dignitosissime. Si intravede una realtà fertile e di perpetua gravidanza . Un’angelica seppur grossolana linea dà vita a una materia dilatata. I personaggi e gli oggetti di Celso Lagar Arroyo si illuminano come fabbriche, si ergono come lampioni nella luce eternamente piatta, come un silenzio perpetuo, della tela. Tutti insieme, come una scolaresca, sostano i dipinti di Modigliani anticipati dai disegni della collezione “Paul Alexandre”. I colli, come pilastri romanici nella loro spessezza e robustezza, sostengono i volti necessari e una linea che quasi vuole concepire una geometria si disegna negli angoli delle figure stesse; si sente lo sfregamento stesso della matita e l’odore della grafite. Sono presenti anche disegni della collezione “Jonas Netter”, dove lo spazio che campeggia dentro alla linea severa e intonsa è un mondo a sé; non è soltanto uno spazio chiuso in una linea. In quel vuoto pavoneggia una dimensione in fuoriuscita, un orfano intriso di malinconia. Nei dipinti, la linea che definisce piani levigati e appena monocromi è un intaglio a penna, è grezza e discontinua; all’improvviso, senza preavviso, si interrompe, si rompe, si stacca, lasciando zone inesplorate, frontiere abbandonate. Nonostante il piano bidimensionale, si sente quasi al tatto il pelo selvatico e corto delle vesti; come se negli abiti fossero intagliate piccole belve squartate o piccole belve indossate e, ancora, in certe capigliature, torri ardite o motivi storici ma anche arcani delle prime civiltà. Nelle mani, in contrasto con la linea svelta e snella dell’insieme, s’annida la franchezza della vita campestre. Il ritratto a Soutine pare cercare fisionomie diverse dagli altri lavori di Modigliani, pare prendere un bivio sulla stessa strada madre. I tratti del viso sembrano umanizzarsi, interferendo più energicamente con lo spirito interiore, con le sue viltà e i suoi tremori interni. Sui lineamenti si stende dunque tutto il raccapriccio e, ”l’idea”, che troviamo espressa su molti visi di Modigliani, lascia posto alla fragranza del dolore. Nelle fattezze, nelle sembianze non ci sono più i tratti essenziali e indispensabili che ricoprono gran parte dei lavori di Modigliani ma è presente una materia accessoria, come un’aggiunta di un superfluo sull’epidermide, come una lava spalmata diligentemente e splendente; ferma da secoli, e che tiene intatta nella sua crosta, come un nascondino, le fattezze del rimpianto. Si erge dunque un supplizio, che si muove sotto alla pelle, che vibra tra le ossa e la pelle, che trova un posto sicuro, come una zecca, nel calore della pelle e, che rende tutto il volto più morbido, malleabile e deformato. Nell’espressione melmosa e caliginosa, l’estasi, che muore nei suoi occhi, è vigile e, non lascia tempo a niente altro di penetrare.
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