LUIGI TENCO, LA CONFUSIONE TRA ARTE E VITA
“Più completo sarà l’artista più completamente separati saranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea” (T. S. Eliot)
di Massimiliano Venturini
IL 27 gennaio 1967 Luigi Tenco si toglieva la vita durante il Festival di Sanremo. Una morte controversa, che solo nel 2006 è stata classificata – almeno legalmente, come suicidio. Cantante, attore, poeta, Luigi Tenco ha sempre dimostrato l’ambizione di voler essere libero: «La mia più grande ambizione è quella di fare in modo che la gente possa capire chi sono io attraverso le mie canzoni, cosa che non è ancora successa» dichiarava nel 1962 durante un’intervista.
Una libertà o una ricerca dell’identità che trovava le proprie radici nell’arte, nella musica, intrecciate alla vita in un nodo eracleotico, per metterci davanti ad una contraddizione: se davvero Luigi Tenco voleva essere così assoluto («Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convinzioni. Io sono come sono” dichiarò in un’altra occasione), allora togliersi la vita perchè incompreso non sarebbe mai stato contemplato.
Una vita difficile fin dalla nascita, che trova salvezza nella musica fin dall’adolescenza. Il pianoforte è il primo rifugio di Luigi Tenco (il cognome è del padre, un minorenne che ebbe una relazione extraconiugale con la madre del cantautore). Il pianoforte, ma ben presto anche altri strumenti come il clarinetto e il sax. Il jazz per primo accoglie il giovane talento a Genova, con il Modern Jazz Group di Mario De Sanctis. Segue il trasferimento a Milano, il passaggio alla musica rock e l’esordio come cantante nel 1959 per la Dischi Ricordi.
Il debutto “I miei giorni perduti” del 1959, l’esordio su 33 giri due anni dopo rivelano il talento di Tenco. “Mi sono innamorato di te” e “Angela” tra i brani rivelano una poetica personale intessuta di riferimenti alla canzone d’autore francese. Dopo lo stop dovuto al servizio militare, nel 1966 Luigi Tenco si trasferisce a Roma e firma con la Rca. Antimilitarista convinto, l’anno successivo si presenta al Festival di Sanremo con il brano “Ciao amore ciao”, che viene eliminato alle semifinali.
La parte della cronaca finisce con il saluto di Luigi a Dalida, che propone di sdrammatizzare il verdetto della kermesse con un brindisi. Non ne vuole sapere, l’artista che ribolle in Luigi, del verdetto del Festival, quasi presagito dalla battuta di Mike Buongiorno (“Questa è l’ultima volta che canterai un brano fox”) pronunciata mentre Tenco saliva sul palco. Un motto di spirito, sicuramente, ma come sempre le parole dette hanno i valori di chi le pronuncia, spesso diversi da quelli di chi le ascolta. Due telefonate nella notte, una alla Rca e una alla fidanzata, poi la notte.
Una notte finita alle due del 27 gennaio con il ritrovamento del corpo di Tenco nella sua stanza al Savoy. Sulla testa era ben visibile un colpo di proiettile che andava dalla tempia destra a quella sinistra. Lo sparo però nessuno lo aveva sentito. “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io tu e le rose’ in finale e a una commissione che seleziona ‘La rivoluzione’, di Gianni Pettenati. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.” Un biglietto lungo, didascalico quasi, un ossimoro a leggerlo. Per inciso, la prassi dei biglietti da parte dei sucidi è più un’eccezione che la regola, e per amara bizzarria vergato da un artista che si dichiara innamorato della vita.
Tocca a noi, nella nostra dotta ignoranza, cercare di annodare fili laddove la storia lascia un ordito sfilacciato, leggere percorsi laddove i documenti indicano solo sentieri interrotti. E forse proprio questo ci lascia aperti spiragli per intravedere quella grandezza dell’animo dell’artista, che in Tenco si intreccia alla vita, un’opera d’arte impalpabile e vera, che trova il suo senso in qualcosa “che non si troverà nei nostri necrologi/O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico/O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno/ Nelle nostre stanze vuote”.
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