La poesia dovrebbe essere una festa. O se non una vera e propria festa, il paramento festivo di un evento che si intende celebrare. Dico appunto celebrare, e non ricordare, perché la sfera della memoria soggettiva entra nella poesia con la Modernità, insieme a tanto altro. E così che essa può diventare anche feriale.
Con l’aiuto del ricordo. Può narrare storie, ibridarsi col reale, travestirsi da sacerdotessa della quotidianità. Ed io, personalmente, preferisco questa ultima opzione, l’oboe sommerso, piuttosto che i tromboni emersi. E resto sempre stupito quando trovo un libro come quello di Gianni Montieri, Le cose imperfette, che senza indulgere a descrizioni, con pochi tratti ben assestati, ci porta nel mondo dei vivi, e qualche volta dei morti, viaggia tra le città, i treni, le botteghe e le facce assenti e presenti per restituirci una forza gioiosa, quasi una grazia del giorno meno aspettato, quello in cui le cose ritrovano inaspettatamente un loro senso, quale che sia. Che siano i migranti o la donna amata, che si tratti di umili realia o di eventi alla televisione, Montieri ci induce ad aspettare sempre la poesia successiva, per sapere quella precedente come va a finire. Brani di canzoni puntellano questa poesia della feria che si dà con assertività ma anche con dolcezza, con quella carica di umore buono che rende vita la vita, e che a torto si definirebbe ottimismo.
Colpisce, in tal senso, che questo sia anche un libro di viaggio: dalla natia Giugliano in provincia mefitica di Napoli, alle ringhiere milanesi, il luogo del diventare uomo, fino all’ultima meta dell’autore che è Venezia. Cambiano le città, ma la capacità di adattare il verso alle cose non cambia, si trasforma, resta sempre se stesso. Divani e sedili di treni, lavatrici e bucati, la pigrizia di sentirsi a volte sempre e solo se stesso, fanno di questo libro un regalo che Montieri porge ai suoi lettori, che se lo apprezzano, vada anche detto che sono buoni lettori. Lasciandoci così un insegnamento: fuori da scuole, modi, e luoghi comuni del poetico, questa poesia affronta ciò che resta inconoscibile per natura: la vita degli altri, luogo di astrazione penetrabile solo con chiavi affettive, l’alterità fatta uomo, donna, stazione, cielo, narrata e cantata insieme, vivente e morente di una sottile ferina vitalità che l’autore si porta dietro senza infingimenti, semplicemente aggiungendo alla inconoscibile vita degli altri, l’inconoscibilità della propria. Da qui la forza di riempire i suoi versi di domande che sono anche risposte, e che trattengono col fiato sospeso tutti noi, che ci lasciano, a fine libro, una sorta di pace che non potevamo prevedere.
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