Ho conosciuto Gianmaria con la sua ultima opera “Roma: Camera Obscura” (opera uno), che presto verrà esposta alle Terme di Diocleziano, e ho trovato, se non conosciuto per la prima volta, la reale sostanza di un artista che è ed è sempre stata nel mio immaginario; l’essere un uomo prima di tutto e poi, di nuovo un uomo che lascia delle potenti orme nella memoria del tempo, attraverso un’opera che è ‘pienamente cosciente di sé’, franca, schietta e potente; potente soprattutto per la dedizione da cui è nutrita. Credo sia sempre più difficile creare al giorno d’oggi opere valide, spesso si cade nell’eccesso per mancanza di talento; le opere sono spesso vuote e appariscenti se non ridicole o accademicamente originali, mentre in Gianmaria ho visto di nuovo l’arte, ho potuto ascoltarne la voce, l’idioma. In “Roma: Camera obscura”, la realizzazione finale dell’opera è solo una parte dell’incanto, nel suo gergo nitido e minuzioso, solenne e sordo, dove la materia così manipolata, si fa testimone di una congettura che smette di essere congettura e, sfiancando l’unica realtà che possiamo assorbire, diventa un’altra realtà, viva e onesta, possibile e tangibile e, dignitosa.
La materia di Roma si fa pece e zavorra come è pece e zavorra il pensiero; in questa opera emerge il pensiero di una città, la materia si apre esibendo il flusso del suo pensiero, la mappa dei suoi trionfi e dei suoi retaggi, le circonferenze dei suoi pellegrinaggi, i miraggi della sua possanza.
In “Limbo”, nell’opera due è persistente il richiamo a soluzioni spaziali rinascimentali nell’organizzazione delle figure umane che seppur collocate in maniera più vivace, ripropongono un’armonia tutta cinquecentesca con le due figure laterali che cingono l’immagine e le figure centrali che campeggiano ; il gruppo di destra più basso è rinvigorito dalla figura alla finestra. Anche nell’opera tre la soluzione compositiva sembra riproporre una crocifissione.
Anche in altri ritratti di “Limbo”, ci sono vagheggiamenti del Rinascimento, ad esempio nell’opera quattro, la grammatica visiva ha una suggestione antica nell’impianto formale dato dalla solidità generale che supporta l’immagine e nella tipologia umana che ricorda un S.Sebastiano e nel colloquio sereno tra paesaggio e figura che si fondono; sono presenti una bontà un rigore un nitore e una compattezza tipici della pittura rinascimentale.
Nell’opera numero cinque l’attenzione al dato naturalistico, descritto con minuzia fa pensare all’arte fiamminga, all’incisione e a un certo ‘splendore cinquecentesco’ nelle foglie, al posto di un arco o di una bifora, che aprono le soglie del cielo e creano un’architettura all’opera.
Stesse suggestioni si ritrovano nelle opere di “Maam- museo dell’altro e dell’altrove”, nell’opera numero sei come una pala d’altare, nell’organizzazione spaziale delle figure ai lati della scale, come angeli, che inquadrano la figura centrale, così come anche l’opera sette che seppur collocata diligentemente entro uno schema spaziale cinquecentesco, emerge plasticamente ed energicamente grazie al contrasto, come un artificio, che si crea con l’iterazione delle figure alle sue spalle.
In “Eva Florentia”(opere otto e nove) è intima la comunicazione tra il tempo passato e il tempo presente, nel contrasto tra la tipologia umana pienamente aderente al nostro tempo e il suo volume antico, costruito dalla luce e dall’ombra, una luce barocca e ‘viziata’, esigente e viziosa, nei colori forti e ‘forzati’ e dal taglio audace delle composizioni che ricordano certa pittura seicentesca.
Un’opera questa che contiene una narrazione proprio nella capacità di narrare, attraverso una fluidità di linguaggio data dalle posizioni del corpo, dalle sue torsioni, dal modo di esistere della figura dentro l’ambiente, dallo sguardo totalmente cosciente della condizione psicologica che reca una tale metamorfosi, dalla dedizione al tempo che sta vivendo. Un’opera viva nonostante l’impostazione artificiosa, costruita entro coordinate scenografiche. Ha dunque due frontiere, passato e presente e forma e speculazione. L’intromettersi di una dimensione in un’altra, come due tempi disconnessi tra di loro in una potente manovra di assimilazione l’una dell’altra. Un artificio delicatamente riuscito, elegante nel bilanciamento seppur audace.
In “Rooms”, opere concepite con la tecnica del light painting, la figura umana diventa un dettaglio dello spazio, quasi come fosse un suo elemento, subordinata agli oggetti stessi e rintracciata solo attraverso di loro; svuotati della loro autonomia.
Un documento dettagliato e concreto della condizione umana di oggi, di ciò che rimane di un antico essere, ormai sopraffatto dalla sua civiltà ‘progredita rispetto a lui’.
L’opera emerge come un horror vacui che trasforma l’umanità in un elemento che diviene un suo antagonista necessario allo spazio e agli oggetti per meglio evidenziarli.
Un’opera di straordinaria acutezza e profezia che contiene una raffinata poesia in alcuni dettagli oltre che nell’apparato generale; in alcuni dettagli come ricami vitali. Nell’opera dieci è ben evidente questa condizione nella figura umana che continua a essere viva nella parte superiore del suo corpo come un organismo ancora vitale, nelle mani che si adoperano, che hanno una funzione quotidiana, nelle gote come un giaciglio di tenerezza e nel busto come un idolo.
Ancora nelle mani dell’opera undici, l’ultimo rifugio di un’antica memoria che continua a respirare.
“En plein air”, la prova forse più coraggiosa e più sperimentale di tutta la sua produzione artistica, è concepita facendo le fotografie all’aperto attraverso vetri battuti a mano. Il linguaggio è schietto seppur liquido e la sensazione che si riceve è quella di opere pittoriche schiettamente impressioniste dove la luce costruisce l’immagine. L’immediatezza che se ne ricava è sorprendente facendo emergere immagini distorte eppure autentiche, pregne di identità, e di un fragore assopito, interiorizzato ma anche reale attraverso la luce che depone un calore assordante. Le opere sono colme di riferimenti, dall’impressionismo appunto ma anche del post impressionismo nella distorsione delle immagini, nel lavoro di sintesi dell’immagine che accomuna tutte le avanguardie.
Osservando l’opera dodici sembra di vedere l’avanguardia nell’avanguardia, dove dinamiche già concepite costruiscono impianti nuovi; la figura della donna in primo piano, prende in prestito, nella sua costruzione, il lavoro di Cezanne, soprattutto nella semplificazione formale ma anche di Bacon nell’espressionismo, nell’aggetto terrificante e nel dettaglio psicologico, in una formulazione decisamente originale.
Nel primo video di “Film experimentation” (opera tredici), una dialettica tra natura e civiltà, un colloquio sereno seppur in contrasto. Questo pellegrinaggio visivo porta la fortuna di potere osservare il fluido del pensiero antico maturato in una esposizione contemporanea sulla questione esistenziale. Sembra di assistere a delle tappe, rubate dalla memoria, sulle eventuali possibilità dell’esistenza, concepite come segreti, come affermazioni grezze che riaffiorano dopo secoli attraverso delle immagini. Ne emerge una narrazione embrionale che proprio in virtù di questo tocca un virtuosismo considerevole un brano di speculazione vivo ed energico dove i tempi si sciolgono senza un’armonia apparente in un andamento ferroso, minuzioso e didascalico.
Una disputa tra contingente e necessario dove le luci e le costruzioni della civiltà vengono assorbite dalla natura e dove ancora la natura trionfa sul nostro agire e divenire. Una civiltà custodita dagli elementi naturali come un bellissimo sepolcro.
Anche negli altri video è la natura a prendere fiato fino all’ultimo “Cave”(opera quattordici), in cui la grotta, come un occhio eterno e paziente osserva il suo mare.
L’opera di Gianmaria De Luca ha la dote della sperimentazione nella sua accezione più veritiera in simbiosi con il riguardo e il rispetto per l’eredità passata. La capacità di integrare il dato sperimentale, necessario, e l’arte passata con una capacità raffinata di fonderle. L’opera che nasce è duttile ed emancipata, intelligente e lungimirante, in accordo con le reali necessità dell’arte. Questo artista, insieme a pochi altri, continua a nutrire l’arte, a renderla feconda ed esplorativa attraverso un ‘metodo’ laborioso, sublime e razionale, concepito e sensuale, strutturato e avanguardistico.
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