In Kafka c’è una tentazione che si manifesta nello svolgimento delle parole, delicatamente, e nella struttura organica, definitivamente. I racconti sono pervasi da questa necessità di tentare il lettore a una lettura che non ha una via di fuga e una destinazione neanche.
Si tratta di un lavoro che diviene, man mano che si costruisce- perché ‘si costruisce da sé’-, un meccanismo sofisticato, un esperimento della mente stessa e niente altro, perché non ha una morale né un’etica della mancanza di una morale; addirittura l’esistenzialismo (a cui si è tentato, tra i tanti tentativi di comprensione di Kafka, di rintracciarlo o collocarlo) ha una voce nella comunità umana nel ricordare che non c’è una morale.
Nelle “Metamorfosi” e ne ”La tana”, si percepisce, in mezzo al terrificante, una intenzione didascalica, dove si tenta una qualche misurazione della realtà con la realtà ma, negli altri racconti, Kafka è un preludio perpetuo e totale, dove non ci sarà nessun compimento o adempimento alla vita o più specificatamente alle sue norme, alla sua composizione. La vita che ci presenta è una espressione autonoma della vita, completamente scollegata dal suo funzionamento e addirittura da qualsiasi funzionamento provocatorio; non c’è provocazione né denuncia e né tentativo di nutrire, attraverso l’astrazione, il nostro pensiero, il nostro pensiero accessibile.
La sua letteratura produce una letteratura, un’altra, energica e scostante, promiscua e snodabile. Nei suoi testi ci si inoltra inizialmente in una realtà, in un condizione sobria, con sfumature, a tratti più marcate, di descrizioni paesaggistiche o informazioni dettagliate di tipologie umane, dove coglie, con grande cuore, elementi minuziosi e di profondo spessore; i suoi racconti prendono in prestito la fisionomia del romanzo, di ‘un romanzo col suo proprio suono’, fino a giungere improvvisamente a una stasi, dove la scorrevolezza, seppur nutrita di dettagli maturi e complessi, e la voce si smarriscono e precipitano in pozze surreali o, se questo termine può apparire troppo normale, con il rischio di storicizzare la sua opera, in pozze ‘oltre il reale’, dove uomini, insetti, altri animaletti si adornano di graziose dismisure che paion volere misurarsi con la realtà; che evidentemente è un’apparenza priva di una sincera consistenza morale.
Questo è il meccanismo sofisticato, la tentazione e la letteratura che si fa avventura di avventure ‘oltre il reale’, visibile appena pochi passi dopo o, dentro i reale, adoperandone solo gli ‘oggetti’ che la compongono e collocandoli non razionalmente tra di loro ma, neanche forzatamente in collisione; è qui la sua peculiarità, il suo punto fondamentale e spettacolare, in questo equilibrio raffinato che genererà la letteratura Kafkiana
Ne “La tana”, che come detto prima, contiene un progetto didascalico, insieme alla “Metamorfosi”, rispetto agli altri racconti, è un annuncio di se stesso alla vita e ai posteri; un’affermazione di sé e della sua sostanza che passa attraverso la sua opera ingegneristica. Un’informazione che vuole diventare lecita attraverso il suo tragitto paranoico, un resoconto che testimonia le sue azioni e i suoi disegni discutibili ma che appunto vogliono legittimarsi con la testimonianza della sua strage e, nel legittimarsi si ripropone la sua pregiata intenzione di una non destinazione del pensiero che, dunque, isolato se non abbandonato dalle leggi del suo stesso pensiero, partorisce una libertà sconosciuta alla libertà stessa.
In una “Relazione per un’accademia”, il testo per me che rappresenta più Kafka, la ex scimmia, che nello stesso momento rappresenta una ex scimmia e la creatura umana tutta, si dispiega senza dimenarsi in monologhi speziati, talmente provvisori da sfiorare una dolcezza esotica e talmente immensi da manifestare un equilibrio precario se non magico. Ci troviamo di fronte a un testo che a prima vista vuole sembrare surreale, ma Kafka supera questa etichetta, generando qualcosa di innominabile e che mette in discussione le possibilità astratte stesse. Dunque una nuova letteratura che, pur parlando la nostra lingua e pur adoperando concetti e consuetudini accessibili alla nostra comprensione, si tramanda o tenta di tramandarsi in una ottica sconosciuta per divenire una questione.
Così in “Undici figli”, una lista senza nessun appiglio, come un mare senza costa, che rimane abominevole ammasso di acqua, dove si nuota senza mai annegare, per l’eternità.
La letteratura di Kafka ci porta in un olimpo di deità che non sono ancora nate e di cui si possono ammirare i primi lineamenti, i primi ritagli abbozzati, disegnati con un solco profondo e monco: siamo all’inizio di un pellegrinaggio che porta un odore differente dal nostro, di fronte a una ‘letteratura che già non lo è più’.
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