Penso che per capire e apprezzare a pieno Silvia è un anagramma, ultima fatica storico-scientifica di Franco Buffoni, bisogna partire dalla “motivazione prima” che ha indotto l’autore a scriverlo. E credo che essa vada ben al di là di cosa facesse Leopardi nel tempo libero. La ragione predominante è l’indignazione verso il tipo di vita che è toccata in sorte agli omosessuali per secoli, quella di poter essere solo “gay velati”, quando non “gay negati” e perseguitati. Su questo si concentra la critica, la ferrea documentazione scientifica, la storia e la geografia del disonore e del pregiudizio.
La vicenda di Leopardi, che sta sullo sfondo e fa colonna vertebrale è come un tronco al quale sono attaccati decine di concetti probatori, di ricerche parallele, di dimostrazioni e documentazioni tanto puntuali e necessarie da non lasciare adito a dubbi. Ma Leopardi, che in tutta la sua vita è stato “l’anagramma” di se stesso, è, seppure titanico, un individuo soltanto. Vi è un intero sistema culturale e politico che, nei secoli, ha negato, perseguitato, cercato di “debellare” l’altra faccia dell’umanità che è l’essere gay. E qui viene la parte più istruttiva, perché viene ricostruita, da Buffoni, con sintesi e capacità di comunicare uniche, da un lato la storia “penale” dell’omosessualità, dagli editti degli imperatori romani fino ai capi dei comunisti apertamente omofobi come Togliatti, passando per il Codice Rocco. Questa storia infame (omosessuali vs. istituzioni di ieri e di oggi) andrebbe fatta studiare nelle scuole superiori, come caposaldo di una nuova materia che dovrebbe chiamarsi “educazione al rispetto” di chi è diverso dai nostri stereotipi pseudotelevisivi. Dall’altra parte, c’è una disamina accurata del mondo della cultura, di tutte le sue riserve mentali, di tutti gli ostracismi, palesi o striscianti, presenti nelle varie articolazioni della macchina del sapere, dalle Università al mondo del giornalismo. Anche in questo caso, il repertorio è (purtroppo) ampio e parte da Leonardo per arrivare ai casi emblematici del Novecento. Anche qui, il tema portante è il nascondimento, l’essere velati, la necessità per l’uomo di cultura, l’artista, il poeta omosessuali, di doversi creare una seconda natura per potersi esprimere, una poetica che li conformasse alla massa del corpo sociale che fa, o vende, o ricicla arte. Dunque una doppia negazione: omosessuale che sei, non ti è permesso di essere libero né in ciò che fai, né in ciò che crei.
L’apparato documentale di Buffoni registra semplicemente questo, che anche nelle epoche più illuminate, il pregiudizio e il “fastidio” verso gli omosessuali (ancora di più che contro l’omosessualità come concetto) non sono mai venuti meno. Come se l’omosessuale non fosse una persona, ma un’entità da analizzare, con occhio da entomologo, tenendola sempre (ovviamente) sotto controllo. Da qui la sezione delle biografie paradigmatiche di poeti e scrittori “irrimediabilmente” gay, di cui tutti sapevano, ma come in una sorta di congiura del silenzio. Si sa, ma non si dice, né se ne scrive: Pascoli, Saba, Penna, Gadda, sono stati i bersagli prescelti, solo per citare i più “vistosi” tra gli invisibili. In questo modo Buffoni, da quel grande umanista che è, con la forza delle argomentazioni e il furore della ricostruzione storico-critica, ci consegna un manuale di storia della civiltà e della letteratura, vista dalla parte di chi non ha mai potuto parlare, né tantomeno scriverla. E quindi, la necessità di capovolgerla, questa benedetta storia degli uomini e della letteratura, per leggerla da un’altra angolazione – diventa, come dire, una logica conseguenza di tutto il discorso sin qui impostato.
La pietas che c’è in questo libro è il filo rosso che muove l’autore e invita anche noi a muoverci di conseguenza. Perché non basta essere culturalmente avvertiti o vincere un Nobel. Il caso di Montale, anima eletta, che però derideva e ostacolava i suoi colleghi gay, valga per tutte le altre politiche della negazione nell’industria culturale del Novecento. Bisogna poi possedere quella empatia di cui i gay non hanno mai potuto beneficiare. E mi fermo qui, perché non voglio, come oggi usa dire, fare “spoiler”. Silvia è un anagramma è un libro tutto da leggere. E come succede sempre con i libri in prosa e in versi di Buffoni, dopo aver letto, la lezione resta impressa. Qual è nel nostro caso? Che nessuno sia più costretto ad anagrammare il suo nome solo per sopravvivere e poter rubare alle fobie e ai preconcetti della mondialità, una goccia di umanità, di tenerezza, di amore. Tutto qui.
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