I tre racconti di Flaubert, si stagliano su rette passate, passando per la più intima e cessando il proprio tragitto sulla più immaginata; tastandola, attraverso un passato che diviene perenne perché perennemente necessario; una veglia intellettuale che è atemporale e che si declina nel presente come una quiete e come una ‘giustizia’ alla sua vita di diseredato del tempo, che egli stesso idolatra. Ci sono elementi di raccordo (con il tempo) in tutti e tre i racconti, elementi anacronistici, come nel caso di “Un cuore semplice” quando dice “sul comò, coperto come un altare d’un drappo, era la scatola fatta di conchiglie”; la storia si incrocia, ritorna, si tocca. C’è sempre una comunione eterna, si ripresentano anche le cuffie, la cuffia di Felicita, come già detto e, anche la cuffia della madre di Giuliano “Un grido lacerò l’aria, trapassandogli il cuore. Era la madre, rimasta con le lunghe ali della cuffia inchiodata al muro”. I tre racconti si appartengono, rievocandosi l’un l’altro, come se il tempo non fosse che una polvere che il pensiero, come un vento, sparge. Questi tre racconti sono stati scritti con tempi lentissimi tra di loro, eppure emerge la sostanza rarefatta di un tempo unico, plastico, sostanzioso; di una eco.
I tre racconti mantengono, saldamente, una spiritualità nella sintesi di se stessi, portata ad estrema conseguenza; è questa un’altra peculiarità che li raccorda. Nel primo dei tre racconti, Felicita o colei che s’affonda negli animi e nelle strutture del cuore delle creature viventi che ‘involano’ la sua esistenza, fino a farla santa o a esalare un certo odore di ‘statuetta legnosa dei miserabili’ a cui, essi attingono come a una chiesetta di paese dove, il canto di dio è perpetuo e immacolato “e, chinando lei la fronte e scotendo il capo al modo delle balie, le ali della cuffia e quelle dell’uccello stormivano insieme”. Si passa poi, senza una presa di coscienza e senza un tempo distinto (anche in questa continuazione armoniosa tra un racconto e un altro c’è la dissoluzione del tempo), a “san Giuliano Spedaliere” che ripercorre i sintomi della sua futura santità attraverso il sacro delle sue ‘impudicizie’ a “Erodiate”, dove lo spirito si dissolve in tutti attraverso il contesto storico e, emergenti sono le figure di san Giovanni Battista e Gesù, che diventa chiacchiericcio tra le porpore e i lapislazzuli; una parafrasi, redatta da lingue biforcute, di Gesù, che anche qui rasenta il sacro (nell’impossibilità umana, in questo caso, di saper discernere e di saper misurarsi con grazia ma anzi di slanciarsi nella volgarità intesa come bestialità) e il mistero che di se stessi, ne consegue. Di nuovo la sacralità in un “Cuore semplice” quando “le mani sotto lo scialletto, calzata di zoccoli neri con la sporta al braccio, Felicita procedeva spedita in mezzo all’acciottolato”.
E’ un’opera che rappresenta lo spirito nelle sue facce, le facce dello spirito, costantemente riconducibili al primo precetto umano di disertare il deserto interiore. La stesura è lesta e nitida, gagliarda ma casta; informazioni sintetiche, quasi brusche, dettagliate ma segretamente tramandate dal vigore stesso della vita, dal suo polmone e; senza argini.
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