Andrea è un uomo di quarantadue anni che corre sempre incastrato nelle dinamiche di una corrida senza fine circoscritta al perimetro di un anfiteatro abbandonato. Doma con forza la sindrome Asperger che galleggia in circolo nel suo corpo e balla nella sua mente. Vive a Roma, è arrivato in città all’età diciotto anni per frequentare l’Accademia delle Belle Arti, ospite della zia materna e dell’amante violento di quest’ultima. Abita da solo in un appartamento che ha come punto di forza un terrazzino con affaccio sulla giungla urbana.
Andrea per chi lo conosce è quello che convive alla grande con una forma lieve di Asperger. Mediamente alto, circa 1 e 72, con quelle mani grandi che piacciono alle donne di mezza età perché se le immaginano come tizzoni ardenti sul loro corpo da tempo gelido. Le interazioni con gli altri esseri umani, quelle che contano, sono state a lungo latitanti. Nel puzzle del suo sviluppo caratteriale ed emotivo, pesa sopra ogni cosa quello zainetto con dentro quella collina di rifiuti di relazioni tossiche da smaltire, materiale radioattivo che non può esser bonificato. I traumi infantili sono stati trattati e tagliati con i residui di alcune lamette usate in modo improprio. Andrea ha spesso dei flashback dolorosi. Allo stesso tempo si sente orgoglioso di quel suo eccessivo utilizzo del senso della giustizia e del dovere in tutti i contesti sociali. Il suo grande vigore spirituale è stato di aiuto per la creazione del suo appeal sessuale. Ha preso atto dei suoi gusti sessuali basandosi su ciò che gli dettava il suo membro durante alcune involontarie esplosioni di virilità. Sembrava sempre appagato da sé stesso e dalle performance del suo membro. Ha portato per anni sulla fronte un’incisione stile croce copta. La vita di sua madre, di suo padre, il loro lieve ed insano, forse incosciente sadismo, erano dentro quella croce. Camminava scalzo e svelto su un pavimento di certezze che aveva fatto sue per merito della sofferenza sul campo. Aveva giurato a sé stesso che non si sarebbe più soffermato nei dintorni di un fondoschiena che non godeva di vita propria.
Il corpo o parla la stessa lingua a tutti o è muto e ripiegato su sé stesso. Nel corso della sua esistenza Andrea aveva avuto modo di capire che era il prototipo di un uomo non comune e che correva più veloce di topolino e di tanti personaggi sani ed intoccabili. Incontrerà una ragazza down che impazzirà d’amore per lui ma non la sceglierà come compagna. Cosciente pienamente delle sue doti, forte del suo caratteristico modo di essere e parlare, si imbatterà in donne senza nessuna sindrome ma con diverse anomalie comportamentali. Era diventato amico di un vedovo che vestiva scuro incontrato in un pomeriggio d’estate sotto una pioggia battente. Quest’uomo avanzava davanti a lui nella penombra con in spalla una bambina e con un bambino mano nella mano, con gli occhi non puntati sulla strada ma verso il cielo. Quest’immagine semplice ed al contempo profonda aveva avuto il potere di distrarlo da un torpore che solo in parte aveva a che fare con la sua malattia. Dopo avere sperimentato a fondo ed a lungo questo iter di distrazione dal dolore, aveva smesso del tutto di piangersi addosso e di mordersi la lingua. Ma a volte meglio lamentarsi che essere ingoiati dal terrore dei ricordi.
Anche altre donne lo avevano desiderato ed avuto nel loro letto. Una in particolare, il ritratto in carne ed ossa, più ossa che carne, della donna che si usa e getta da sola. Durante l’inverno chiusa ermeticamente in una bolla chiamata palestra. Il pomeriggio un rosario recitato a favore dell’estetica. Occhi spiritati puntati sullo specchio durante l’esecuzione ginnica e un’anima che si riempie solo con una magrezza preoccupante. Una donna dotata di una non comune vivacità intellettuale, una vivacità intellettuale irritrattabilmente orientata verso progetti con fondamenta decisamente deviate. Lo ha portato in giro per la città come un personale trofeo di caccia. La foto di Andrea ben incastrata nella pagina di apertura del suo portatile. L’uomo che lei è stata capace di rendere felice. Durante i loro viaggi ha cercato di succhiargli quel suo candore insieme al suo uccello perché il merito e la ragione della sua presunta felicità a suo dire le appartenevano. Questa relazione sarà solo una breve mossa da fante nello scacchiere della sua vita sentimentale, teatro di ben altre rappresaglie.
La sensazione di una leggiadra e flebile stabilità emotiva era sopraggiunta con Eugenia. Una donna di ventinove anni figlia di una madre sumerologa e di un padre critico di letteratura moderna, un tenore di vita elevato, e molti amici di quel genere che si ottiene grazie proprio grazie ad un tenore di vita elevato. Prima di incontrarlo era l’eterna prima fidanzata che si scorda presto. Vittima e carnefice dei suoi genitori e delle loro aspettative, Eugenia conduceva una vita dissipata tra alcool e festini. Viveva in un suo appartamento a via Ruggero Bonghi, in prossimità di Colle Oppio. Frequentava un master di lingue, un proseguo forzato degli studi linguistici dell’università. Per il momento non lavorava e non sapeva neanche cosa volesse dire farlo. Andrea era solito specchiarsi di continuo dentro come un qualunque felino in cattività. Si cominciò a chiedere perché mai mangiare, bere, dormire e parlare con Eugenia.
L’amore tra i due nasceva, moriva, cambiava, rinasceva per poi infilarsi definitivamente sottoterra. La loro relazione, le loro passeggiate per la città a guinzaglio corto, continuavano. Andrea non c’era più, non faceva più buon uso di Eugenia e in meno tempo del previsto la lasciò andare via, se ne disfò completamente, come se la loro esistenza nel mondo e nel tempo non ci fosse mai stata. Non c’era sofferenza, non c’era desiderio di sofferenza, solo una dimenticanza, come uno dei tanti scontrini caduti sotto la cassa. Andrea continuava ad aprire ogni mattina la serranda della vita, gli interruttori della luce rianimati con un uno scatto di nervi, le faccende che si devono fare prima e dopo i pasti svolte con noncuranza. Come ogni giorno, come uno schiavo con una sua particolare libertà quotidiana, gli pareva di essersi guadagnato la possibilità di poter non guardare la misera e sentimentale faccia scura dell’ipocrisia. Per qualche tempo non aveva avuto nessuna donna a parte qualche puttana ogni tanto. Dario, un amico incontrato all’accademia della vita più che di restauro, anche lui sulla quarantina con una figlia, già divorziato, e discretamente ammuffito dalle bastonate della vita, passava molto tempo con Andrea. Bevevano su molti bicchieri e parlavano delle donne, di cosa fossero per loro. Il quesito ricorrente era se fossero esseri umani proprio come gli uomini o qualcos’altro, cosa mai dirgli, come cazzo passare il tempo insieme e soprattutto come mai somigliavano sempre alle loro madri, mai soddisfatte, mai risolte o risolute se non per le scelte sbagliate. Qualsiasi ora della giornata per Andrea era come ghiaccio che si scioglieva in un bicchiere senza niente di alcolico dentro, solo il suo pensiero troppo grande in un cranio ancora più grande. Un pensiero con un suo fastidioso tic tac che non si può spegnere. Rimbalzava, suonava, lottava con la struttura che lo costringeva alla prigionia. Andrea quando non era con Dario si accendeva una sigaretta e faceva immensi progetti da superuomo, sognava la sua aureola da divinità in terra e mirava ed ammirava i suoi passi poderosi da eroe contemporaneo.
Il mondo era proprio addosso a lui e lui lo sorreggeva e lo respingeva, anche se con estrema fatica. Pensieri buffi, di grandezza, da superuomo, una specie di autocompiacimento aggressivo e compulsivo. Poi si andava a prendere un bicchiere di vino, due, tre, incontrava gli amici che un po’ non lo capivano ma che lo facevano comunque sedere accanto per un po’ di calore umano. Lui non diceva molto, per lo più ruminava congetture sulla sua percezione della morale comune.
Un giorno, un giorno come tanti altri, senza un motivo particolare, non una ricorrenza astrale, un compleanno o onomastico, non una festa comandata, la madre di Andrea va a trovarlo. Andrea deve andare a prendere la madre alla stazione centrale. Passano insieme tre giorni da incubo, vanno una sera su tre a cena fuori ed un altro giorno, dopo la chiusura della giornata lavorativa, escono a trovare la zia. Pasteggiano, a tavola c’è solo acqua e gazzosa, ed un dolce secco per finire in bellezza. La tv ha un volume abbastanza alto che camuffa pericolosamente il nulla. Secondo la prospettiva materna, lì con loro c’è solo un bambino malato di una malattia strana parente di quella che colpisce i down, un figlio, un bambino che mangia anche il dolce cattivo per compiacerla, nessuna donna è mai stata con lui, nessun passo poderoso tra la gente lenta, è un infame ingrato che gli ha negato la serenità d’animo. Andrea indossa la sua camicia a scacchi di cotone pesante e sta seduto a braccia conserte in attesa di una pioggia di ricordi dolorosi. Quest’ultimi si scagliano potenti contro la sua anima che perde sangue. La saliva nella bocca, moltiplicata a dismisura da un più che giustificato nervosismo, gli impedisce di ragionare. Intanto scorrono in sottofondo le note di una canzone contro la guerra. Chiude gli occhi e riaffiora il dolore e vengono a galla i ricordi. Il Pub gremito dai ragazzi della scuola, qualcuno prova le prime sigarette…Alberto, il più stronzo, gli afferra le orecchie tirando forte nel senso opposto a quello naturale. Sarà che Dario (l’unico amico in città e vicino di cuore) è irrimediabilmente lontano. Per la saliva, per la forza che viene a mancare, per via di quell’emozione triste che si avverte quando si subisce una violenza, o per l’improvvisa sensazione di calore non di carattere sessuale avvertita su tutto il corpo ed in particolare nelle mutande, finisce per piangere dando così immane soddisfazione visiva al suo torturatore. Ci sono intorno a lui degli spettatori silenziosi che si corrodono per la rabbia per quel palese sopruso consumato per di più ai danni di un mezzo disabile.
Attraversavano il Pub dei ragazzi vestiti all’ultima moda sorseggiando birra con cadenza regolare mentre lui è ancora a terra. Le lacrime gli annebbiano la vista ma non abbastanza da permettergli di notare quel senso di pena negli occhi di quei ragazzi. Non vuole aiuto, men che mai una mano tesa che lo può rialzare, perché quegli occhi sarebbero stati così ancora più vicini, avrebbero colpito a morte il suo orgoglio. Si guardava le mani lievemente ferite e vedeva dei gessetti spezzati che non possono scrivere sulla lavagna nera della vita. Quelle mani ora non possono dare colore alla vita. La lavagna resterà nera. Con la madre e la zia, nel mezzo di una notte abitata da stelle apparentemente malformate, alcune idee accarezzano la mente di Andrea. In uno stato di trance simile ad un travaglio riesce a partorire il desiderio o forse in parte la convinzione di poter esser capace di far sfoggio della sua particolare intelligenza in ogni contesto e latitudine. Ma la realtà è scomoda quasi per tutti e la forza di un progetto si mescola alla debolezza di un ricordo che fa male. E la luce del giorno scalda gli animi degli uomini piccoli che sono in perenne agitazione per via del fatto che devono dimostrare la fallibilità della realtà dell’esistenza propria e altrui.
Andrea è volato via, giù dalla finestra. La madre e la zia stanno ancora sparecchiando. Andrea è volato via con la sua cartella riempita con le banane marce, con la cattiveria, con la rabbia, e con piccoli estratti organici degli amici-nemici schizzati addosso. Andrea è stato abusato in modo profondo e continuo in tanti modi, in tante maniere, e non ce l’ha fatta ad andare avanti con noi. Ha preso per i fondelli la madre e la zia che sono rimaste senza fiato in gola. Sotto alla finestra c è una stampella nel muro, una scaletta messa li non si sa da chi e per quale intenzione. Andrea guarda sorridendo la madre e la zia rotte dalla paura. Si è preso una piccola rivincita e domani al calar del sole ricomincerà ad andare in giro per la città a cercare altre avventure amorose che lo facciano sentire più leggero.
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