ACHTUNG BABY
L’anniversario dell’esperienza
di Massimiliano Venturini
Il prossimo novembre Achtung Baby, il successo più clamoroso degli U2, compirà 30 anni. Per pubblico e critica è stato l’album dello Zoo TV tour, della mitica “One” con le sue tre versioni del video, la definitiva consacrazione a rockstar planetarie, la consacrazione culturale sancita da Salman Rushdie e Wim Wenders. Ma è anche la perdita dell’innocenza di fronte al nuovo mondo globalizzato e interconnesso, il mondo dell’esperienza (per usare l’immagine di William Blake) in cui tutto è merce e si gioca la guerra per le nuove schiavitù, a partire dalla falsa democrazia del web.
Un po’ come quei santi folli che per mortificare la propria santità frequentavano prostitute e lenoni, gli U2 con Achtung Baby si trasformano in merce, prodotti luccicanti da cui estrarre , come nei dolcetti della fortuna, messaggi di vita e perle di saggezza per districarsi in Matrix.
Perché achtung baby è appunto la svolta tecnologica, il nuovo equilibrio (in apparenza) post ideologico dopo il crollo del Muro di Berlino due anni prima. E Berlino è lo stimolo che attende di essere vissuto, per ogni forma d’espressione che abbia intenzione di modernizzarsi. La produzione è affidata a due pesi massimi dello studio di registrazione, Daniel Lanois e Brian Eno.
La location sono gli Hansa Studius, gli stessi della “trilogia berlinese” di David Bowie a cui lavorò lo stesso Brian Eno. Della partita anche il “sesto U2”, il fotografo Anton Corbijn, autore della iconografica copertina collage, costruita sulle immagini di un viaggio a Santa Cruz e in Marocco.
Gli U2, da qui in poi, non sono più semplici “musicisti” eroi della coscienza civile degli idealisti occidentali. Sono personaggi di uno spettacolo a 360°, che comprende ritmo, armonia, immagine, fotografia, grafica, movimento, teatralità, poesia. Achtung Baby ne è la summa e il collante. Il graffiante suono di The Edge è il nettare dell’intro rumorosa di “Zoo Station”; la ritmica industriale di Larry Mullen e del basso di Adam Clayton crescono freneticamente; la voce filtrata di Bono è ora diventata luciferina e il frontman canta, in un testo vagamente dadaista, ispirato dallo zoo di Berlino, che ora si sente pronto. “Sono pronto. Pronto a dire di essere felice di essere vivo. Sono pronto, pronto per la spinta”. E questo è il biglietto da visita dei nuovi U2.
La seconda traccia, “Even Better Than The Real Thing” parte da un impianto di classico rock, con un Edge che nell’impianto dell’album prepara la zampata dell’intramontabile “One”, forse il brano più celebre del gruppo. Evocativo e spirituale, carnale e reale come ogni storia d’amore, il brano si staglia come una preghiera, un anelito all’amore universale, del tutto estraneo a retoriche da “volemose bene”.
A ruota segue il secondo capolavoro del disco, la gemma voluta da Wim Wenders nel suo film “Until The End Of The World”, come recita la canzone stessa. Un ipotetico dialogo tra Gesù e Giuda, calato in un atmosfera diabolica che strizza l’occhio alla blasfemia. Il timbro acuto e metallico di The Edge si fa più aggressivo e culmina in un assolo tagliente.
“Who’s Gonna Ride Your Wild Horses” è un’altra ballad romantica, animata da una delle ritmiche più convolgenti del gruppo, battuta dalla nobile mano di Mullen. Il brano che segue è l’unico vero respiro fino a questo punto, “So Cruel”, episodio meno incisivo, ma non privo di spunti (su tutti la ritmica secca e precisa).
Ad aprire la seconda metà dell’album è il suo manifesto, “The Fly”: un riff ingombrante e tagliente di The Edge, minaccioso ronzio che contrappunta la voce nuovamente filtrata di Bono. Una maschera, questa, che apre una serie di maschere (o avatar?) che metterà in scena sul palco per vari anni a venire; il ritornello mostra un geniale gioco di controcanti in pulito falsetto del chitarrista contrapposti alla demoniaca voce di Bono.
“Mysterious Ways” regala consistenti echi funky e si rivela uno dei brani più giocosamente selvaggi di tutto il disco. The Edge suona un wah riconoscibilissimo e insostituibile, Adam Clayton traccia una delle sue linee migliori del disco e Larry Mullen definisce il tutto con un drumming potente, inclusi bonghi dal vago sapore africano. “Tryin’ To Throw Your Arms Around The World” è il momento più gioioso del disco, incalzato subito dopo dall’amara dolcezza di “Ultra Violet (Light My Way)”. “Acrobat” è un pezzo tirato e teso, reso tagliente da un The Edge frenetico e nervoso, che conferisce ulteriore enfasi all’emozionato cantato di Bono. Il finale è apparentemente tranquillo, ma carico di paura e cupezza: “Love Is Blindness”. La struggente consapevolezza cui giunge Bono è che l’amore è cieco, da qui il parallelismo tra l’amore e un incombente senso di morte. The Edge si concentra su organo e tastiere, appoggiandosi sulle note flebili di Clayton e sui battiti sottili di Mullen. L’ironia e il frastuono della modernità si ritirano per fare spazio a un’amara riflessione sul disincanto che farà da leitmotiv nel capitolo successivo della trilogia del futuro, Zooropa.
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