Questa opera ha il suo principio “scarnando” uno spessore sublime, il primo della materia di cui è costituito, senza nessuna aspettazione o possibile idea, eliminando qualsiasi possibile profezia umana a questa “ scarnificazione”.
Primo quaderno o individuazione di se stessi
“Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione”
Questo primo quaderno contiene la consistenza dell’individualità, è il riconoscimento di se stessi, come tutti gli altri sette quaderni, presentando una umanità piena di una individualità ‘precoce’ e non divenuta; archetipale, con l’accettazione completa di ciò che si è, senza avere probabilmente o volere la ‘possibilità’ di divenire qualcosa altro- un parvenu o senza la possibilità di divenire una aspettativa:
“A che punto di indifferenza possono arrivare certe persone, a che profonda certezza di aver perduto per sempre il giusto sentiero”.
Non c’è libertà di espressione ma piena adesione al proprio essere senza alterazioni, contro il tempo; gli strumenti sono aboliti se non quelli necessari a levigare la propria natura.
Tutto ciò che è stato creato per abortire ‘lo stato perenne di se stessi’ viene distrutto da questo procedimento di integrità individuale.
Kafka presenta fisionomie di esseri umani aderenti a se stessi; il fochista, incapace di sollevare le gambe, l’avvocato dott. Bucephalus col pastrano aperto, la borsa premuta contro il fianco, il bastone appeso a una tasca del paltò, la sincope e altri.
“Il male conosce il bene, ma il bene non conosce il male. Solo il male ha coscienza di se stesso”.
Una coscienza del male dunque, che non riesce a divenire e a essere altro che male, mentre il bene non ha bisogno di nessuna memoria ed è in perpetuo divenire.
Tutte queste identità hanno in comune la reale consistenza dell’individualità, la sua densità, il fatto concreto di essere ciò che il cielo ha programmato, l’appartenenza alla propria pelle.
Secondo quaderno o azione
“La storia universale, quella scritta e quella tramandata, non ci è spesso di nessun aiuto; l’intuizione umana, invece, ci porta spesso fuori strada, ma comunque ci guida, non ci abbandona”.
Il secondo quaderno è l’estensione del primo; è l’individualità in azione, armata, lo stupore dell’essere che perdura, che perdura alla storia, alla costruzione, alla civiltà e che diventa azione, azione di ciò che si è, “la regola” di cui siamo composti che trascende il codice sociale e che sorpassa i suoi andamenti e le sue intenzioni.
“Talvolta accade che- ed è molto difficile indovinare le ragioni- che il più illustre tra i toreri scelga per le sue esibizioni la cadente arena di una cittadina fuori mano, il cui nome era pressochè sconosciuto al pubblico di Madrid”.
L’intento necessariamente individuale di scegliere se non arginare la propria carne dalle contingenze
create da noi stessi inutilmente, per emergere da noi stessi invece di affogare in noi stessi, è palese in queste parole perché in questa scelta è insita l’azione di se stessi di scegliere un luogo in cui poter essere se stessi senza togliere così alla “idea” di noi stessi la sua purezza e di conseguenza la sua natura.
Terzo quaderno o aspirazione
“Teoricamente esiste una possibilità di essere felici in modo assoluto: credere nell’indistruttibilità in sé e non cercare di aspirarvi”.
Il concetto di aspirazione in se stessi che ho rilevato in questo terzo quaderno, tra l’altro non tenendo in considerazione inizialmente questa affermazione di Kafka, continua a essere l’estensione dei primi due quaderni, come un percorso inevitabile dopo l’individuazione e l’azione.
“Dal di fuori sarà sempre facile schiacciare il mondo con una teoria e precipitare poi subito nella medesima fossa, ma è solo dal di dentro che si potrà conservare il mondo e se stessi in silenzio e verità”
Come dicevo precedentemente sembra esserci un percorso logico o empiricamente logico a queste successioni di individuazione, azione e aspirazione perché la possibilità di aspirazione presuppone il desiderio che si genera dopo aver individuato se stessi e provato l’azione.
Dopo aver provato l’azione o, diverse azioni, in modo embrionale, provando una fiducia di sé, si può scegliere e aspirare a sé, soltanto a sé, seguendo gli andamenti della propria tempra senza slittare minimamente in qualcosa che è esterno a noi, in quelle aspirazioni sciatte e monotone che stanno al di fuori di noi, che ci corrompono e ci muovono verso sogni fallaci.
“Tre cose:
Vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo.
Oppure due cose sole, dato che la terza comprende la seconda”.
Queste tre affermazioni necessitano di una esegesi. Vedere se stessi come una cosa estranea presuppone appunto la capacità di essere pienamente dentro se stessi, una sorta di accettazione del nostro continuo e perenne mutamento rispetto a noi e rispetto all’esterno; una condizione inevitabile e intelligente, ineluttabile, una sorta di esistenzialismo. Pensare di avere una idea di noi è un concetto inconsistente e debole, impossibile e che di conseguenza ci porta a dimenticare ciò che abbiamo visto perché ciò che si è visto appartiene a una esperienza precedente di noi che già si è superata e che ci porta sanamente a conservare lo sguardo odierno, momentaneo del presente, preservandoci e aspirando a noi.
Quarto quaderno o sopportazione
“Atlante avrebbe potuto pensare che, quando lo volesse, non aveva che da lasciar cadere il globo terrestre e andarsene; più di quest’idea, però, non gli era permesso di avere”.
L’idea di noi continua a essere fallace; l’imposizione di noi stessi a noi stessi è la ragione della fine, della sciagura della creatura umana; è la sopportazione che ci rende noi stessi, la sopportazione della nostra condizione primitiva che se sopportata, paradossalmente, muove, attraverso la nostra autenticità conservata, verso i nostri reali lineamenti, sempre in perpetuo divenire.
“Il silenzio apparente nel quale si susseguono i giorni, le stagioni, le generazioni, i secoli è come uno stare in orecchi, allo stesso modo trottano i cavalli davanti alla carrozza”.
In questa affermazione non c’è sopportazione di sé ma accettazione di una condizione imposta; si è portati a sentire attraverso un moto di rarefazione generato da codici e linguaggi stereotipati da una civiltà che non è capace a esserlo: la civiltà, quella che dovrebbe essere stata la più imponente opera dell’uomo, interrompe la nostra evoluzione.
“Due compiti per chi inizia la vita: restringi sempre di più la tua cerchia e controlla di continuo se, per caso, tu non ti nasconda in qualche parte al di là del tuo limite”.
Dunque non uscire dalla sopportazione di te stesso, non essere altro per dimenticare la sopportazione di te.
L’inutilità della produzione umana come unico scopo di ogni essere umano in questa vita è l’argomento di questi quaderni, la costanza di intraprendere un ruolo che non è il nostro in questa esistenza e l’inevitabile infelicità, anche estetica che ne deriva.
Quinto quaderno o ostentazione
Quando una tale misura di sé si porta con tale incanto, diviene ostentazione; ostentazione che prende posto nella cavità del nostro spirito, una ostentazione quasi muta, irradiante, totalizzante, ampia, talmente connessa a forme antiche di noi da divenire straniera a se stessa.
Ostentazione o delirio primordiale della consistenza dell’individualità. Un approdo, un giaciglio dove termina il pellegrinaggio.
“Potrei essere molto contento. Sono impiegato presso il consiglio municipale. Che bella cosa essere impiegato presso il consiglio comunale! Poco lavoro, stipendio sufficiente, molto tempo libero, alta considerazione agli occhi di tutta la città. Se considero ben bene la situazione di un impiegato del consiglio comunale, non posso fare a meno di invidiarlo. Ed ecco che ora lo sono io stesso, sono un impiegato del consiglio comunale… e vorrei, se potessi, gettare questa mia dignità in pasto al gatto dell’ufficio, che ogni mattina va di camera in camera a raccogliere i resti delle nostre colazioni.”
Giunti a questo punto è lecito affermare tutto ciò, senza nessun timore di apparire presuntuosi o goffi rispetto alla realtà; un uomo partecipe della sua sciagura, infettato da una civiltà fragile e fallace, una vittima della inevitabile sopravvivenza, un essere umano operoso e performante che lascia se stesso dentro un tradimento in una modalità totalmente cosciente.
“Il signor Senzasperanza navigava in una piccola barca intorno al Capo di Buona Speranza. Era di mattina presto, soffiava un vento gagliardo. Senzasperanza issò una piccola vela e si reclinò indietro, pacifico. Che cosa poteva mai temere dentro quella barchetta, che, col suo minimo pescaggio, scivolava come un essere vivente sopra tutti gli scogli di quelle acque perigliose
Quì la scelta dell’ostentazione non è più scelta ma pelle e natura. Ci sono tutti i presupposti che determinano una tale condizione (ostentazione) ossia di esser giunto alla pace, alla sua pace, alla sua identità senza che nessun accadimento esterno lo distolga dal godimento e dal suo essere dopo un lungo cammino.
Sesto quaderno o libero arbitrio
“Una volta, in un pomeriggio d’inverno, dopo diverse arrabbiature d’affari, il mio negozio mi apparve così odioso, che decisi di chiudere subito bottega, per quel giorno, benchè splendesse ancora una chiara luce invernale e fosse tutt’altro che tardi. Queste risoluzioni del libero arbitrio danno sempre buoni risultati”.
Quando decisi di nominare il sesto quaderno ‘libero arbitrio’ non avevo ancora letto questa parte e fui sconcertata dalla veridicità del mio sentire e interpretare questa opera di Kafka.
Libero arbitrio dunque, libero arbitrio di una creatura giunta alla fine della sua destinazione. Il pellegrinaggio è terminato e si staglia ai piedi il nostro volto, denso e antico quanto è antica la nostra ‘colpa’.
Libero arbitrio di un uomo che abbandona un posto che evidentemente non gli appartiene, che mette decisamente in secondo piano la produttività perché finalmente esposto a se stesso, al bene che gli può garantire, seppur per un tempo determinato, la dignità del suo tempo, l’azione necessaria per uscire da una condizione pietosa di essere umano.
Settimo quaderno
‘Un sogno di sé e del padre’, personificati in figure arcane, questo racchiude il settimo quaderno che, chiude il tragitto di questa opera.
Il lavoro svolto fino a ora, collocava i vari quaderni in una definizione che io ho scelto accuratamente in base a speculazioni. Il settimo quaderno non ha un nome e porta una virtù, non menzionata ancora, che ha la potenzialità della virtù stessa in quanto disposizione a elargirsi, a espandere se stessi nell’esperienza della vita in tutta la propria purezza per capire per salvarsi.
Un quaderno dell’infanzia, primitivo, magico e arcano, come magici e arcani sono i tentativi dei primi uomini di comprendere catturare e propiziarsi la vita, cosi Friedrich e Hans, due personalità con sembianze diverse che incarnano il figlio, tentano di propiziarsi il padre, manovrano il loro presente attraverso esperienze avventurose e vietate per arrivare al padre che risiede nella soffitta pronto a insultarlo, seppur muto, o che risiede nel giardino, seduto come una deità, giudicante seppur ‘cieco’. In entrambe i casi è seduto e indossa un berretto di agnello.
Il settimo quaderno dunque incarna il disaccordo tra il padre e il figlio ripiegando in un mondo enigmatico e profondissimo, le cui radici sono assopite oltre la terra.
L’ultimo quaderno è indipendente dagli altri sette, ha una sua personalità, non entra in comunicazione con gli altri.
Queste mie speculazioni sui quaderni rimangono speculazioni, sono una lettura del loro spirito con i miei occhi, un ascolto profondo della loro voce con le mie orecchie.
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