KLIMT. LA SECESSIONE E L’ITALIA

di Francesca Sallusti

Mostra di Klimt

Con “Marie Kerner von Marilaun in abito da sposa” nella prima sala inizia l’esposizione di Klimt, è il primo dipinto che campeggia assoluto e puro come pura è la forma del suo ovale, un ovale esasperato ma tipicamente antico, come antichi sono gli occhi, che ricordano tanta produzione greca e romana. Antichi gli occhi ma già sprementi la futura spiritualità sollecitata dall’onirica sensualità della sua opera posteriore.

Nonostante queste fonti a cui attinge già è palese il suo tratto, il suo fermento, il suo codice prestigioso che lo porterà in futuro a concepire delle opere “di razza”, delle forme, in profondo colloquio con i colori, che esprimono e che portano dentro la voce di un nuovo periodo, che vuole congiungere l’unità delle arti in un’unica opera d’arte. Lo dimostra in maniera incredibilmente intima, unendo la sua ‘visionarietà’ alle sue esperienze visive ed emotive (il suo viaggio a Ravenna nel 1903 e il ricordo del padre orafo, esperienze che lo avvicinano all’oro) e dando ai suoi dipinti, attraverso la bidimensionalità, quell’astrazione geometrica degli sfondi in cui pone le figure, che fanno dell’opera non soltanto pittura ma anche decorazione; dunque siamo davanti a una “creazione totale”. E così di nuovo nel viso, concepito classicamente, si percepisce una forzatura, presentandosi incassato seppur esposto, irreale seppur plastico, nella coroncina, intagliata e legnosa e concepita come un oggetto a sé e nella capigliatura come un giaciglio sprezzante del tempo e della dimensione in cui vive. Anche in questi dettagli emerge un’opera d’arte totale, nell’introdurre parti della figura come oggetti a se stanti e nel viso che somiglia a un tempio. L’abito, erto e ferroso eppur sonoro e candido è incorniciato, con esemplare sobrietà, dal ramoscello e dal gioiello al suo collo.

Nella seconda sala troviamo un elegantissimo disegno di studi per la figura di Schubert al pianoforte con “Ragazze che cantano”. Non meno persuasivo e affascinante dei dipinti grazie a quella regalità somatica del volto periglioso che si annuncia al cielo e alle maniche dell’abito che ricordano ‘bellissime gabbie di uccelli esotici’ in un tempo dimenticato dalla disgrazia . Nella capigliatura della figura a sinistra, un incendio appena vivente, dolce, un incanto nella sua prima voce, un giovane nell’era dell’amore e nella figura a destra il contenimento dell’oro. Nella figura a sinistra le mani sono concepite come incubi o come un panico finalmente sciolto e salvato; somigliano a un relitto di un incendio, un relitto custodito con amore da bende salvifiche e materne.

Nella quarta sala Hofman con la sua “Madonna”. Tutto è umanizzato e la prospettiva sembra voler sparire, è momentanea e teatrale. Tutte le figure portano la stessa carne argentea e acida e la loro umanità è sopita da un clamore ultraterreno che si getta negli occhi, più finti della finzione, senza nascita né morte. I tre fanciulli, come oro sporco, portano i lineamenti della giovinezza invecchiati dal dolore, dallo spessore della vita, dal segreto di dio; come fossero la lingua e la parola di dio spiegati nel corpo polveroso di due fanciulli.

Un’opera carnale e avanguardista di un tema spirituale e religioso, come a spiare il fulcro di una narrazione, la sostanza di un evento.

Giuditta1” rappresenta l’unione di due mondi, di due concezioni, quella intellettualistica e quella naturale, riscontrabili nella decorazione, nella bidimensionalità e nella rappresentazione del corpo, nudo e potente, semplice e intatto, crudo, tra il risultato della civiltà e dunque del tragitto raffinato del pensiero e quello della natura.

Due prospettive come due fazioni, dettagliatamente circoscritte nella loro condizione, autoreferenziali ma che durante l’osservazione si congiungono, diventando la stessa identità.

Nel volto, nell’addome, nell’arto e nello sfondo celeste (che si insinua anche nella fronte e nel torace) la natura che si presenta schietta e senza storia e nel resto, nell’oro, nelle forme la congettura e poi l’abbandono l’una nell’altra che attraverso la capigliatura prendono riposo e sosta.

La decorazione mangia senza sosta la natura, se ne ciba e il corpo, lasciandosi mangiare, pare un vecchio castello sempre meno intatto, e la natura umana non è quasi natura; si arriva a una spiritualità costante. Sulla superfice, striature di pelo.

Nella “Ragazza nel verde”, si intravede una Giuditta prima della ‘distruzione’, prima della trasformazione della figura umana a essere decorato e spiritato nel contorcimento del volto a puro metallo fuso che diverrà teso come una medaglia antica, come un dettaglio di un capitello, una Giuditta ancora umana ma già promessa e protesa al cielo, astratta e imprigionata nel pensiero a differenza dell’abito e della capigliatura che, seppur irrigiditi come stucco, portano una leggerezza primordiale.

Concludo con “Il fregio di Beethoven”, un’opera che comincia con un tragitto perenne ma che cessa improvvisamente in un nodo sacro, cessa il cammino in due corpi perpetui come un’arma naturale, di carne e odore, uno strumento caldo e imperfetto, incorruttibile e mortale insieme, lontano dall’artificio e dalle intenzioni.

Mi sono soffermata a pensare come klimt, che crea le sue opere sull’artificio e sulle ‘possibilità’ umane di rappresentare una ulteriore natura, abbia invece concepito un’opera che si sofferma, che si dà pace, che si sottomette all’energia dell’amore, che si slancia sul dato intellettualistico di produrre un altro amore, un amore che nasce dall’arte e dal pensiero.

Questa opera è nuda, scarna, forte, antica in tutti i suoi pannelli nonostante lo stile di Klimt.

Comincia il pellegrinaggio con un pannello che ha il suo principio nel cielo, nelle figure in alto, sospese.

Seppur eteree, sono colme di ritmo e contengono lo spazio circostante e assorbono il tempo di tutto quello spazio vuoto al di sotto di loro nel corpo modellato plasticamente dentro la linea leggera e cruda, spaziosa.

Le mani, che sembrano piccoli scafi del pensiero, approdano, come una barca in un porto in un altro corpo che è lo stesso, per ripetere la stesso annuncio di felicità e libertà.

Altre creature, al di sopra di loro, sono prive di ritmo, trapassate, ma ne continuano la memoria e rinvigoriscono il cammino e la destinazione alla felicità e alla potenza come una parentela, sono indispensabili l’una all’altra come la carne al sangue. Le figure soprastanti sono il sospiro e il respiro delle altre.

Da queste creature, che sono il seme, prende la forza tutto il concetto futuro dell’opera, da questo slancio prende forma e sostanza tutto il concepimento.

Si arriva al cavaliere arcaico dentro all’armatura medioevale che pare uno scheletro, come a voler rappresentare o simboleggiare la sfida alla morte dei valori e della perpetua bellezza; combatte la morte della bellezza e della potenza dell’amore vestito della sostanza della morte, come a cercare un dialogo più intimo.

Lo sguardo è penetrante e assoluto, vivo; il volto indossa qui i vestimenti della vita e del suo fiato, e questo contrasto tra l’armatura e il volto, rende ancora più energica la narrazione dell’opera. Due figure nude lo infilzano, come la stessa pietà infilza, nel gesto di chiedere aiuto; la terza donna in piedi dietro le due supplicanti e anch’essa supplicante, è concepita come una candida fedele che attende.

Le due figure che lo coronano e la decorazione in cui sono intrappolati sono una raffinatissima rappresentazione che riesce a tradurre in materia il concetto di idea e di pensiero e dunque di memoria (di valori umani) che porta poi all’azione.

Il secondo pannello, è la densità del male e dell’ignoranza, con un efficacissima resa dell’opulenza e del ‘pieno’ attraverso colori, decorazioni come a sottolineare la necessità del male e dell’inutile di riempirsi; un ricordo dell’horror vacui barbaro.

Il cavaliere dovrà contrastare e svuotare questa opulenza e questo pieno, sradicare il male dalla terra e dalla storia.

Nel terzo pannello lo stesso cielo forte e salvifico dove sotto s’annida la poesia che accoglie la lotta e la vincita, tra le sue braccia la tiene come un figlio, avvolgendola e amalgamandola al suono.

Alla base del suo corpo, i piedi sono basi di capitelli abbattuti dal tempo e dalle stragi ma tenaci.

Seguono, cinque creature in un moto ascendente e colme come ceste cariche di frutti e di grano, di sanità, che ci introducono alla fine del viaggio.

Questi tre pannelli sono lo svolgimento della stessa vicenda ma le creature non si incontrano, non si amalgamano, rimangono come simboli nelle loro dimore.

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