A cavallo delle strade di Roma, a briglie sciolte, con il bagagliaio pieno di elucubrazioni ermeticamente imballate, con l’idea della meditazione come pratica quotidiana da domani stesso che ancora viaggia nei tuoi pensieri, con la tua macchina lussuosa o con un residuo bellico a quattro ruote, se ti stai sentendo le grida di auto di una sentinella che vigila sui resti di una civiltà che fu il cuore del mondo, hai le tue ragioni per credere che ciò significhi ragionare ancora bene secondo una sensata linea temporale ed umorale.
Dopo che scendi da cavallo avviene la catarsi, ti trasformi in un povero derelitto che incassa sui muscoli del collo lo stress dato dall’ennesima coda o dall’inaspettata scia di semafori rossi. Cominci ad elencare la tua lista della spesa, zeppa di oscuri segnali direttamente riconducibili alle ramificazioni biforcute delle tue pene d’amor felicemente o infelicemente perduto. E finisci per amare una donna dal fascino unico che ti offende fino alla nausea con i suoi modi sgarbati ed arroganti. Sei legato anima e corpo ad una donna che puntualmente lascia i segni dei suoi artigli sulla pelle. Sei a Roma con quella donna e quel gatto che ogni tanto ti lasciano accomodare accanto a loro, in silenzio, in una sorta di stato di accettazione dell’imperfezione dell’essere. Poi ti accorgi che non sei a Roma con loro ma che loro sono Roma. Questa città ingloba il tuo teatro dei fallimenti. Dal mio letto a baldacchino con finestra sul fiume, vedo negli scheletri dei palazzi un poderoso esercito di crepe che prendono forme più vivaci e si danno un tono. La sua bellezza è una scure che tarpa le ali e falcia le gambe in modo democratico a chi non osa e a chi rimane sé stesso. Roma ha ospitato a tradimento tuo cugino per poi incatenarlo a sé con inganni e fornelli. Roma dove tutto non funziona altrimenti non sarebbe Roma. Roma che si allunga fino a portarti sulla sabbia a raccogliere i ricordi dei tempi in cui ti sembrava che tutto sarebbe come per magia filato liscio.
Roma che ti guarda annoiata come se fossi tu ad annoiarla. Roma che si fa bella solo quando la guardi con lo sguardo misericordioso dell’amore paterno. Le crepe si intravedono nelle facciate de palazzi. Scendono beffarde fino a toccare terra con movimenti improvvisi. Le dimensioni di queste crepe si fanno preoccupanti anche se in pochi se ne fanno un problema, malamente distratti da una frittata di dirette streaming sull’importanza del gossip nell’era contemporanea.
L’ amore per Roma lo leggi negli occhi di quelli che dicono sempre, come per effetto di una litania perenne, che vorrebbero stare altrove, ma poi li vedi in lontananza ai piedi di Villa Borghese, sul dorso di Piazza di Spagna, con il sorriso beffardo sotto i baffi, che camminano leggiadri ed apparentemente felici, benedetti da raggi di un sole invernale sulle spalle, con lo sguardo perso di chi si sente schiacciato da cotanta bellezza tutt’attorno. Le rovine del Foro Romano che costeggi affranto dopo il terzultimo misero sogno di gloria morto e putrefatto, fanno finta di chiudere un occhio perché ne hanno viste tante di budella capovolte. Registrano, sbuffano, si contorcono per nulla meditabonde. Le crepe finiscono per indossare i panni di una soubrette di seconda fascia e terza serata. La televisione le chiama, le riprende, ma non le controlla compiaciuta del terrore che verrà pieno di ricatti osceni. A casa conservi quel quarto di dollaro che si portava in tasca tuo nonno in giro per la California a cercare lavoro. Un quarto di dollaro passato per le mani di quei ragazzi che ne avevano bisogno, una curiosa impellenza che portava i più a commettere crimini di poco spessore. Tuo nonno si sudava ogni quarto di dollaro. Per qualche secondo, solo per fargliene sentire l’odore, quasi con fare sadico, aveva finito per prestarglieli. Per partecipare alle fiere di paese dovevi avere un quarto di dollaro altrimenti non tiravi con il fucile ai barattoli e non ingurgitavi quei disgustosi agglomerati di zucchero filato. Con la pelle bianca o nera, con avi scomodi o con parenti ben inseriti nella corruzione politica, dovevi avere la libertà di sentire il peso di quel quarto di dollaro in tasca. La vita in tasca. Quei figli della miseria non li avevano mai avuti quei 25 sogni di latta in tasca. Ora hai tu quella moneta, è tornata nelle tue mani dopo giri immensi. Non hai ugualmente quella porzione di affetto ed umanità che pensavi avresti ottenuto dagli amici, dalla famiglia d’origine, dalla vita, ed i parchi giochi hanno chiuso i battenti. Sei ancorato alla terra perché pesi troppo e le tue gambe non tremano. Ma non possono e non devono tremare perché sosterranno quelle ancora tremolanti dei tuoi figli. Non c‘è, e non ci sarà luna che non vedrai attraverso i loro occhi. Sbaglierai ancora ma a farti sbagliare sarà il morbo dell’affetto o il termometro troppo alto dell’amore. Sarai forse ferito dai tuoi figli e ti preoccuperai per loro ma finché ci sarai non potrai e non vorrai allontanarti da quell’onda magnetica, terribile energia che si alimenta, si rinnova e si rovina ogni notte. Hai perso la voce con cui recitavi le preghiere per l’affermazione del tuo io, ora nelle tue corde vocali esiste solo un megafono che speri attiri l’attenzione dei Santi e degli Angeli del tuo rosario laico, che ti auguri controlleranno l’atterraggio corretto delle impronte dei tuoi figli sulla terra. Vedi in sogno la strada in salita, ti spaventi, sai che anche strisciando proverai digrignando i denti ad arrivare in cima. Le crepe si prendono un caffè nei locali del quartiere e fanno del male alle vetrine dei negozi del lusso.
Come animali rapaci usavamo tutti gli anfratti della città eterna per baciare la luna e mangiare il sole, per coprire il mondo ed i suoi utensili con un panno di sogni. Tutti sullo stesso seggiolone a sgambettare, ognuno con lo stesso romantico cammino di esplorazione. Sorpresi, infastiditi, mai spezzati, con il serbatoio pieno di speranza. Era un’altra città. Le crepe sono in calore, ululano e guardano la fame di tragedia nelle pupille rosse di quel grappolo di giornalisti sciacalli.
Oggi è la città dove un uomo retto, onesto, un povero essere umano convinto di esser puro nello spirito e nella ragione, sarà sempre un relitto destinato a dribblare lo sguardo mefistofelico di mostruosi gabbiani dalle movenze sempre più sgradevoli in una terra di pene per l’anima. La maggior parte dei suoi simili sono sempre stati ladri e sporchi dentro e finisce sempre che chi si ritiene virtuoso deve correre lontano dalle lusinghiere fiamme della corruzione per non essere dannato. Qualunque sia il suo modo di agire o pensare i gabbiani incroceranno implacabili il suo sguardo. Eppure, noi miserabili ed al contempo grandiosi piccoli amici, in seguito all’adolescenza, imberbi ed irruenti ragazzini sognanti, ai tempi con il cuor leggero, come palle di Natale in cima all’albero più ammirato, ci facevamo belli l’un con l’altro solo grazie a semplici e patetiche acrobazie subacquee. Più ampio si faceva il nostro volteggiare più torbida si faceva il colore dell’acqua della piscina e della vita. In quella piscina che era la nostra giovinezza, ingoiando bolle d’acqua con disinvolta euforia, eravamo in grado di guardarci negli occhi e molto impettiti e poco villosi puntavamo le speranze sul destino di un paese già vecchio.
Le crepe aumentano a dismisura e portano con sé il sempre verde ed efficace sentimento della paura.
In lontananza rimbomba l’eco potente di un boato, un tonfo enorme. Si apre una voragine con vista nell’umido, la raccolta differenziata nel cuore della periferia. In centro c’è ancora chi, negli appartamenti con vasca idromassaggio nella terrazza condonata, si infila la droga nella bocca come nel quadro di frutta e muffa di Bacco. Qualcuno dipinge di ridicola inconsistenza morale chi osa tenere in mano una collana di romanzi di formazione. Qualche funzionario di alto grado e di bassa cultura, gli punta un ditino da bambina capricciosa addosso. Alcuni professionisti che lavorano del settore furti d’identità con destrezza, perseverano nel condividere le loro intuizioni in un social network piuttosto che assisi ad una grande tavolata di vecchi amici. A capotavola, con il passar del tempo, non ci son più nemmeno le ombre ed i segnaposti.
Non esistono più le facce preoccupate dei genitori davanti ai segnali di concepimento di ideologie sovversive. Forse con consapevole falsa modestia mista a celata ritrosia, forse perché nella terribile condizione di esseri viventi non al passo con i tempi, uomini coraggiosi pensano ancora alla magia del cinema, dove, come per effetto di un incantesimo di democrazia e stupor comune, ci si può nascondere, uniti da una mano nell’ombra sotto una piattaforma equidistante di stelle, dalle piccole meschinità che guidano l’agire delle nostre misere esistenze. Vinti e vincitori si riducono a muti spettatori di altri vinti e vincitori. La somma di teste più o meno pensanti diventa sottrazione per lasciar spazio alla magia dello schermo. Per due ore siamo ancora nulla o tutto, con un’emozione strozzata nella gola, con le lacrime dentro o a rigare il viso, con la bocca che prende vita attraverso inarrestabili smorfie che tentano di smorzare una risata.
Le crepe distruggono la faccia del red carpet della città con la sapienza di un pugile a fine carriera.
Le nuvole giocano a nascondino e si eclissano verso panorami terrestri meno spettrali. Palesano il loro disgusto per le crepe e per i crepati in terra attraverso una danza tribale che fa rabbrividire.
La tragedia è veloce ed inattesa. Come in un fermo immagine che riporta la memoria a quei secondi che spensero intere città giapponesi, tutto prende fuoco, tutto crolla a beneficio di un quadro ad olio di macerie oramai vivo solo in orizzontale.
Non nascerà una città nuova priva di pregiudizi, ma dal vecchio e sporco mondo dei luoghi comuni gli uomini porteranno soltanto le buone abitudini.
Rideranno di gusto le ragazze perché rinnoveranno il contratto con i loro desideri sensuali aggiungendo clausole di salvaguardia mai concepite nel vecchio mondo. Gli uomini torneranno dalle carbonaie con la faccia soffusa dalla terra nera. Si tornerà indietro, prima del passato. Si vivrà nelle palafitte o in scomode lande, o in un territorio non ben definito ed in continuo cambiamento.
Che strani pensieri nascono di notte proprio sulla terra dove sarà fondata una nuova città…
Non perdere i nostri aggiornamenti
Elaboreremo i dati personali forniti in conformità con la nostra politica sulla privacy.
Articoli Recenti
KAFKA, GLI OTTO QUADERNI IN OTTAVO
KAFKA, GLI OTTO QUADERNI IN OTTAVO o la consistenza dell'individualità di Francesca Sallusti Questa opera ha il suo principio
VAN GOGH, PALAZZO BONAPARTE
VAN GOGH, PALAZZO BONAPARTE di Francesca Sallusti Apre la mostra una sala dedicata a pittori coevi a Van gogh, come Renoir
FRANCESCA SALLUSTI, NOTTURNI SPLENDENTI
FRANCESCA SALLUSTI, NOTTURNI SPLENDENTI Testo poetico di Francesca Sallusti sull'opera di Gianmaria De Luca DA "MAAM - MUSEO DELL'ALTRO E DELL'ALTROVE" di Gianmaria De Luca
Scrivi un commento