Un libro di poesia ha sempre come un fondo di bottiglia, un’ombra rasa e trasparente che riluce e fa da controcanto a quelli che paiono essere i soli connotati possibili della versificazione, giacché non esiste un libro di vera poesia che sia unilineare. È il caso dell’ultimo libro di Luca Minola, Pressioni, pubblicato nel 2017 da LietoColle, che si rivela, una volta in più, una fucina di talenti in erba – ma non solo. Cerchiamo di capire il titolo, per prima cosa. Vi è come uno schiacciamento del reale, un desiderio di penetrarlo nei suoi minimi dettagli che lede lo stesso principio di realtà, quasi fino all’orfismo, fin quasi al non dicibile. Essa è pressata, esasperata, e come uno stantuffo, lascia uscire rumori e musica, versi ed immagini, visioni e transizioni del presente dove è il fluire del tempo a ridurre tutto in una summa melodica che, a un certo punto, chiama in causa lo scopo stesso del far versi e l’effetto del comporli, in particolar modo. Questo libro, infatti, è anche un libro sul fare poesia, laddove la materia del verseggiare assume i caratteri di un controcanto salvifico anche se mai pacificato. Ma quando la poesia parla di poesia, vi è sempre come uno scenario anteriore, il fondo di bottiglia di cui ho detto al primo rigo, che resta anteriore a tutta la caparbia mise en abyme autoriale e persino postautoriale, se mi passate il termine. Questa può essere soltanto la visione del mondo di questo giovane poeta, la catastrofica riluttanza di questo a entrare in contenitori preconfezionati e infine la sua tragica scomparsa come dopo un diluvio postatomico. Vado a spiegarmi. Minola sa che le coordinate per una seppur minima conoscenza del reale non esistono più. Resistono invece, nelle sue poesie, dei frammenti, o meglio, dei granelli di senso, che con geometrica costanza egli mette insieme con immane fatica e con uno splendore carsico ma intransigente. Come ci riesce, ce lo spiega nelle poesie metapoetiche. Perché lo fa – è lo scopo di quest’opera tanto ambiziosa quanto umile e per nulla pretenziosa. Per questo ho scelto di parlarne anche se è passato un po’ di tempo dalla sua prima uscita. E per di più, penso che i libri di poesia andrebbero recensiti 2, 3, 5 anni dopo la loro pubblicazione, per vedere se hanno resistito al tempo e se hanno ancora la forza di dire ciò che in principio hanno scelto, con tanto entusiasmo, di dire quando tutti si lasciano contagiare dal feticcio della novità letteraria.
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