Prima di essere poesia è un incanto antico, incivile, che, divenuto civile, fa della sua civiltà il suo canto.
Carlucci porta la poesia nella dimensione umana oltremodo e, dunque, si esplora l’uomo tutto che si concentra in lui. Un volto che, tra tutti i volti esistenti, si fa principe e principio di ogni uomo; iscrive sulle sue gote, piene di carne benedetta, la bontà del dolore e il nome di tutti.
Carlucci è la testimonianza del dolore incantato e incontaminato, nella sua estensione massima, nella sua indipendenza ed è dolorante esso stesso. Dolore ‘dell’improbabile’ umano e del fatto che non esiste un riconoscimento di se stessi ma solo un lancio slanciato e periglioso; nella sua scrittura l’umanità è un grazioso e gentile ornamento del tempo e il volto, che solo a tratti appare, è straniero a chiunque. Non ci sono filtri tra il suo divenire uomo e il suo essere diventato uomo ed è in quel trascorrere del tempo tra le due dimensioni che la sua poesia nasce, in quel primo fiato che divide il secondo.
La sua scrittura, plastica e altera, si fa scultura nel suo momento più intimo e, non troverà una conclusione, un riposo, una forma conclusiva da donare né un respiro equilibrato tra la terra(dove è posta) e il cielo ma, un colloquio eterno e ideale di cose sporche e masticate, usate dal dolore.
Man mano che si nutre di questo colloquio infinito, la sua poesia è comunque già concepita in una struttura certa e grezza, in una forma solida e potente. La scrittura di Carlucci ha un’impronta enormemente speculativa, forse come nessuna poesia prima, è una poesia della filosofia, una scrittura dettagliata e priva di stilemi, è un canto dignitoso e acuto come una preghiera e come un ‘testamento’ dell’umanità all’umanità. Ci troviamo davanti a un tempio che contiene una scrittura vitale e, da cui cola, a chi attinge, la linfa di una realtà contingente alla realtà. E’ una scrittura maestosa e silenziosa, senza ornamenti, senza sperimentazioni, dunque antica e definitiva insieme. La surrealtà è inserita organicamente nella struttura compositiva e i retaggi culturali si fondono nella storia personale pacificamente, a creare una simultaneità. Una scrittura, dunque, ‘estinta’ e paradossalmente nuova rispetto alle ricerche poetiche di questo secolo; è composta in un ‘bel tempo’, in un tempo nobile e cagionevole; è una scrittura “assoluta”. Dunque, questo è un canto della civiltà e delle sue nudità, è ‘la poesia dell’uomo’.
La comunità assoluta, ‘come un cane che in lontananza abbaia ai suoi cani che sente abbaiare e che non può raggiungere perché è vuoto, orfano e porta il dolore di tutti, dolore che deve cingere a sé, come le vestali accudivano il fuoco’, è il titolo che rappresenta pienamente Carlucci. Una comunità, appunto quella umana, che attraverso il suo approdo, quello del poeta, e attraverso le sue ‘profezie’, diventa assoluta, ovvero priva di intenzioni. Nei volti della comunità è scavato il suo volto.
Questa poesia, ci porge la possibilità di un’umanità ulteriore, ‘cieca’, rarefatta, mossa da un divino che non ha niente a che fare con dio, da un divino che non ha nome, posizione e a cui nessuno crede; un dio libero e artificiale.
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