DAVID BOWIE
di Massimiliano Venturini
Il 10 gennaio di cinque anni fa moriva David Bowie. Due giorni prima aveva compiuto 69 anni, lo stesso giorno era uscito “Black Star”, lacerante e inevitabile testamento artistico preparato come l’ultimo atto di un uomo che ha deciso di raccontare la propria fine annullando nel modo più definitivo il confine tra arte e vita, epilogo di un’avventura artistica che ha cambiato la visione della musica popolare.
L’uomo e la maschera, dove finiva il primo e iniziava la seconda? Se è vero che ogni conoscenza del mondo altro non è che la ricerca di sé, il mistero di Bowie è ben lontano dall’essere esaurito. David Robert Jones, il nome con cui era iscritto all’anagrafe di Brixton, nel Sud di Londra, ha dimostrato che una rockstar può essere molto di più di un rocker e qualcosa di diverso da una star. Nessuno come lui ha saputo mettere a nudo i cliché della stardom, il rapporto morboso, ma anche ipocrita, tra idoli e fan, il falso mito della sincerità del rocker, l’assurdità della pretesa distinzione tra arte e commercio.
Bowie è stato anche uno dei primissimi musicisti a concepire il rock come “arte globale” (pop-art?), aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive. Ecco quindi l’ambigua maschera dell’alieno caduto sulla Terra, Ziggy Stardust, da cui il suo creatore non esitò a liberarsi per indossare le vesti prima del Thin White Duke, il Duca Bianco lanciato alla conquista dell’America ma schiavo della cocaina. E poi l’immersione nella decadente e luccicante Berlino della metà degli anni ’70 per produrre la celeberrima Trilogia Berlinese con una delle tante scioccanti svolte stilistiche.
E ancora la maschera del rock danzereccio alla Let’s Dance come quello più elettronico di Scary Monsters, inclusa la deludente – sul piano commerciale – parentesi dei Tin Machine. Crooners carismatico, autore geniale, un’icona di stile, un esploratore di suoni, un attore, un artista che tutto sommato si è curato poco del mercato ma ha guadagnato montagne di soldi grazie ai Bowie Bond, un’operazione finanziaria senza precedenti, un pittore legato all’Espressionismo tedesco.
Per non dimenticare le sue frequentazioni con il mondo della settima arte, che lo vide partecipare a pellicole come “L’uomo che cadde sulla Terra”, “L’ultima tentazione di Cristo”, “Miriam si sveglia a mezzanotte”, “Furyo”, “Tutto in una notte”, “Labirinth”, un autoironico cameo in “Zoolander” e un’apparizione in “The Prestige” di Christopher Nolan.
Letteralmente uno, nessuno e centomila Bowie quindi. Un personaggio unico, illuminato, spinto da una curiosità inestinguibile e da un inarrestabile desiderio di conoscenza, quasi a voler comunicare che il cambiamento e la scoperta del nuovo sono un metodo per mettere ordine nel caos. David Bowie è stato e continua ad essere uno degli artisti più influenti della storia della cultura popolare, come ha dimostrato la Mostra realizzata dal Victoria and Albert Museum di Londra.
Uno dei primi a capire che il Rock’n’Roll poteva essere molto di più della musica che annunciava al mondo la nascita dei giovani come categoria sociale, a intuire che si poteva andare al di là di confini e convenzioni, che attorno alla musica si poteva costruire un vero e proprio universo di segni. Perfino la morte è stata trasformata in qualcosa che andava oltre la sua ineluttabile verità. Quando, di fronte all’ultimo atto, David Duncan Jones e David Bowie sono tornati ad essere la stessa persona.
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