DOMENICO CIPRIANO, LA GRAZIA DEI FRAMMENTI

Ladolfi Editore, Novara 2020

di Stelvio Di Spigno

Talvolta, conoscere di persona l’autore di un libro, specie se in esso vi è contenuto un lungo itinerario testuale, aiuta e non poco. Il rischio di essere sviati dal fattore-contatto c’è sempre, intendiamoci, ma non quando si vuole andare veramente a fondo dei testi e dell’evoluzione perentoria che si scorge nel leggerli. È il caso di Grazia dei frammenti, antologia poetica di Domenico Cipriano, che racchiude circa 25 anni di scrittura e quattro libri che sono altrettanti capitoli di una vita (e qui viene a galla l’autore, la sua singolarità, anzi) spesa in un generoso atto di accoglienza creaturale e senza timori riverenziali nei confronti della propria condizione di abitante di una periferia che grazie alla sua bravura e umanità è diventata (e così fa sentire il lettore) il centro di un mondo di inferenze, osservazioni, canti, rapporti umani, vicende personali e collettive, Storia.

Andando con ordine: Domenico Cipriano, poeta irpino nato nel 1970 a Guardia Lombardi, ha appena pubblicato un’antologia che racchiude il meglio dei suoi quattro libri di poesia, che vanno dal primo lontano esordio de Il continente perso del 2000 all’ultima pubblicazione, L’origine, del 2017. A chiudere sei squisiti inediti sul vino e variazioni sul tema ad esso legate. Mutevolissimo nelle sue oscillazioni stilistiche e metriche, il libro è attraversato da un sentimento unificante e vivificante di appartenenza a una terra sempre sul punto di mutare, di scomparire, di trasformarsi in un’entità che lascerebbe i propri figli più che interdetti, orfani.

La terra, le sue affiliazioni, le sue ricadute nella sfera psicologica del poeta che si fa corifeo di ogni suo abitatore, di ogni sua pietra, di ogni sua memoria, sono gli attori vicendevoli e protagonisti della poesia di Cipriano. Il quale, dopo la sospensione estetizzante e leggermente ermetizzante de Il continente perso, attraversa la dolorosa ulcerazione di quella catastrofe immane che è stata il terremoto del 1980 con i testi tratti da Novembre (2010), ad oggi il resoconto poetico più personale ed essenziale su quell’evento che si trovi in circolazione, cataclisma che ha cambiato per sempre il destino non solo di un territorio ma di tutto un popolo, che si è trovato catapultato da una dolce e sempiterna arcaicità all’avidità dei lupi rapaci della politica e dell’industria della ricostruzione.

È con questo libro che Cipriano comincia a manifestare la sua cifra. Novembre è in tutto e per tutto una Spoon river che invece di dedicarsi ai morti, mette sulla griglia dell’ostensione cosmica coloro che sono rimasti in vita, smarriti, a volte perduti in modo più opprimente di chi sotto le macerie ha lasciato la vita. Il ritmo del verso è frantumato, tellurico, dinamico. L’atmosfera però resta caldamente abitabile e umanizzante, come se l’autore pregasse chi legge di porre un fiore non sulla tomba, ma nelle mani di chi, essendo scampato alla morte fisica, deve assaggiare la morte interiore che è la cancellazione del proprio passato e del proprio mondo che duravano incorrotti da secoli solo pochi minuti prima. Una presa di coscienza. Un lacerante ritorno alle proprie origini e ai primordi della propria memoria personale. Un trauma che si fa statuto di se stesso come se tutto quello che dovesse venire dopo non potesse fare a meno di restarne intrappolato.

E invece non è così. Con Novembre, attraverso la mediazione di un tempo abbastanza lungo per cogliere vicende e allontanamenti dall’evento “formale”, si impianta in Cipriano la consistenza pura di un’appartenenza a una storia e a dei luoghi, che si svilupperanno nelle successive tappe della sua ricerca poetica. Non è un caso se la sua raccolta posteriore si chiama, per l’appunto, Il centro del mondo. In essa, il senso di consanguineità con una terra lontana diventa fonte di ricentramento esistenziale e poetico di fronte a una sfera globalizzante che cancella persone, cose, storie, sentimenti.

Lo spirito di osservazione di Cipriano vira verso ciò che si oppone al mutamento continuo, al cambiamento sociologico e geografico che vengono condensati in un caos che si vuole moderno, attuale, irrinunciabile e imprescindibile. Come se nella filosofia di vent’anni fa non fosse stato enunciato quel grafico che annunciava che al crollo periodico delle borse mondiali il solo rimedio è l’uomo che alza la saracinesca ogni giorno, il contadino che ogni mattina prende i suoi strumenti e lavora. Come se un uomo di oggi avesse il dovere di essere uno sradicato che parla 10 lingue, che consuma e fa strisciare la sua carta di credito in ogni parte del globo, che si vota alla globalizzazione scordando anche come si chiama. Ecco, questo è l’antidoto poetico di Cipriano. Dire “io sono qui”. Nella parte di universo che mi è stata assegnata. Osservo i mutamenti. Piango per ciò che muore. Ma prego che qualcos’altro sostituisca ciò che è passato, in quella continuità ciclica che ha il suo fondamento e ritmo nella natura.

Così qualsiasi parte dispersa e peregrina del mondo diventa Il centro del mondo, perché chi la abita e la vive è attento a preservarla e a non farla scomparire. Ne cura i rapporti, le intransigenze, i cambiamenti fisiologici. Si adatta all’ascolto, e si fa trasportare da esso verso la melodia feroce e incantata della terra. Sa che i mutamenti sono solo la facciata commerciale dell’annichilimento dell’uomo, che sotto di essi il cuore pulsante della vita rimane in fermento ma non si autodistrugge. Il mutamento, a volte sentito amico, altre meno, ma sempre trattato con la massima serietà concessa alla poesia, sembra pungolare Cipriano, che li ravvisa nei visi di una moglie, di un amico, di amici e conoscenti, alla luce della luna o in quella artificiale dei lampioni. Perché sa che il mutamento può essere di due tipi ed avere due velocità ben distinte. Ciò che cambia e si perde per il ritmo misterioso del tempo, e quello che invece ha tratto spunto dalla nostra condizione di esseri di passaggio per costruire caselli e centri commerciali al posto di cascine, campagne, casolari, immettendo nel sangue di una intera società la frenesia di un cambiamento che non ha più nulla di autentico e che serve solo all’arricchimento colpevole di pochi.

Madre, moglie, figlia. Amore materno, amore di compagna, amore di figlio. Sembrano immagini vetuste, invece sono le esatte concatenazioni con le quali le «figure di attaccamento» di J. Bowlby si presentano alla vita di ognuno di noi. Bolwby afferma che queste figure sono quelle che incideranno da sempre e per sempre sull’umore di fondo di ciascuno. I genitori, il partner, i figli. Proprio come nelle poesie di Cipriano, che forse non ha molta familiarità il padre della psicologia cognitivo-comportamentale, ma senza conoscerla alla perfezione, alla perfezione ne ha incarnato la matrice. Una volta fissato il centro del proprio mondo, che è in realtà il centro affettivo, dirimente e morale di ognuno di noi, Cipriano ci riporta a L’origine, al punto forse più alto e profondo di questa antologia, la raccolta omonima del 2017. In essa c’è una dilatazione stilistica del verso davvero coraggiosa, oltre a una saggezza, un grado di serenità, un’autorevolezza e pietà di giudizio, che provengono tutte da un’esperienza quotidiana immediata e vissuta in tutti i suoi risvolti, per nulla da una qualche idealità libresca. L’origine delle cose porta a noi, che ruotiamo nel tempo giusto a noi concesso. Porta alla vita di chi c’è stato prima e chi ci sarà dopo, come se fossero già qui, come se la comunione tra queste varie anime fosse possibile già ora. Porta, nella giusta trasfigurazione concessa alla poesia, a un amico che ha scoperto i segni del Paleolitico in Irpinia, come fosse la più naturale e pacifica delle scoperte: i segni del Paleolitico in Irpinia.

Presente, passato e futuro si danno la mano per brillare al centro di un mondo poetico autentico e traboccante di un poeta che al problema della felicità dell’uomo ha avuto la fortuna di sostituire quello di come esprimerla. Perché essa è già presente, e nessuno se ne abbia a male. Dolce come un augurio e leggera come un saluto, la poesia di Cipriano sperimenta metri e ritmi, configurazioni versificatorie e sprezzature ardite per richiamarci alla mente il suo paesaggio interiore, gli affetti, le contraddizioni, le ferite che ogni vita, per quanto giusta e autentica, porta al poeta e ai suoi lettori. Ecco perché, come ho detto all’inizio, occorre talvolta conoscere anche il poeta prima e oltre i suoi libri. Soprattutto quando ci viene instillato il dubbio che essere felici non è fuori moda, né in poesia né nell’esistenza, né nei nostri tribolati tempi omologanti. E inoltre, perché ognuna di queste poesie, memori della lezione di un Bertolucci, per quel realismo creaturale che le innerva pressoché tutte, ci spinge ad una ricerca di ciò che è giusto, onorevole, sacro, per ognuno di noi, senza vergogna, senza finzioni, e senza più scuse per avvalorare un dolore che ci perseguiterà soltanto fino a quando noi, e soltanto noi soli, lo permetteremo.

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